Uno scoppio nei cieli sovrastanti il sud degli USA, una serie di scie luminose simili a degli asteroidi, una pioggia di frammenti nelle campagne americane, una nazione che si ferma, il dolore di un’intera comunità scientifica, di tutte le famiglie degli scienziati morti nel disastro del Columbia, il cordoglio di un intero paese Israele che aveva già eletto a eroe nazionale il suo primo astronauta.
Una serie di domande sulla presunta fatalità o sull’incuria legate al disastro avvenuto, una slavina di polemiche e di punti interrogativi, molta noiosa retorica nazionalista statunitense.Tutto questo e ancora altro, è stata l’informazione in questi giorni sulla tragedia del Columbia. Un’informazione che negli USA ha avuto copertura quantitativa e qualitativa seconda sola agli attentati dell’11 settembre, con moli enormi di informazione anche sul Web come si può evidenziare nello speciale dedicato da Cyberjournalist.net.
L’unica cosa certa, ad oggi, è la morte dei sette astronauti che sapevano perfettamente che andare nello spazio non è ancora sicuramente un’attività routinaria, ma va inquadrata come una scelta di vita e professionale pionieristica, che comporta enormi rischi, ancora maggiori se, come sembra, ci sono stati problemi di budget, di adeguamento delle strutture, di loro manutenzione o forse addirittura errori umani.
Il modo migliore per ricordare i morti è portare alla luce le ricerche che si sono svolte a bordo dello Shuttle caduto. Uno degli esperimenti che è stato portato avanti sul Columbia tristemente esploso nei cieli del Texas, è relativo all’utilizzo del protocollo IP nello spazio. Dell’Inter planetary Internet ci parlò a fine 1999 addirittura Vinton Cerf, creatore del TCP-IP e considerato, a ragione, il vero padre di Internet: >.
Già prima del lancio del Columbia altre missioni avevano utilizzato per la trasmissione protocolli Internet, ma in questo caso si è utilizzato, per la prima volta, un nuovo sistema di mobile IP definito dal programma della NASA denominato OMNI (Operating Missions as a Node on the Internet).
Uno degli obiettivi del progetto CANDOS (Communication And Navigation Demonstration on Shuttle), era di ridurre i costi utilizzando sempre più diffusamente, anche per le missioni spaziali, tecnologie standard semplici e meno costose, molto diffuse nei diversi settori industriali.
Per il progetto Candos il Columbia ha imbarcato a bordo, alla sua partenza, il 16 gennaio 2003, un embedded PC con una CPU a 233 MHz, 128 Mb di RAM, un RAM disk di 144 Mb il tutto pilotato da un classico Linux Red Hat 6.1 basato sul kernel 2.2.12.
Il computer Linux era in grado di comunicare via radio con un transciever a bassa potenza (LPT) non solo con la stazione di controllo del progetto ma poteva connettersi anche ad altri satelliti della NASA o ad altre stazioni a terra dell’ente aerospaziale americano che avrebbero poi rigirato i pacchetti di comunicazione alla base di controllo. Un vero e proprio routing/roaming spaziale che permette teoricamente alla nave spaziale di rimanere sempre connessa via protocollo TCP-IP con la base terrestre. Ovviamente, tutte le comunicazioni sono state fatte in maniera criptata utilizzando l’ormai diffusissimo SSH.
L’avventura del TCP-Ip nello spazio si è ulteriormente arricchita con il lancio del CHIPsat, messo in orbita il 12 gennaio. La missione ha prevalentemente obiettivi nel campo dell’astrofisica: CHIPS sta per Cosmic Hot Interstellar Plasma Spectrometer, ma si caratterizza dal punto di vista informatico, per il fatto che si tratta della prima missione della NASA che utilizzerà per la sua comunicazione con la terra esclusivamente protocolli della famiglia TCP-IP.