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«Siamo in transizione, stiamo imparando»

03 Agosto 2010

«Siamo in transizione, stiamo imparando»

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"La questione importante non è ciò che la tecnologia sta facendo a noi, ma ciò che stiamo facendo noi con la tecnologia", dice Henry Jenkins. Una (lunga) conversazione sul mondo che cambia

Henry Jenkins, blogger, accademico e autore di molti libri importanti (tra cui, per Apogeo, Cultura Convergente) è uno dei pensatori che meglio hanno accompagnato la transizione della nostra cultura al digitale. Le sue analisi, lucide e sempre storicamente argomentate, sono tradizionalmente una chiave molto interessante per interpretare il cambiamento che vediamo intorno a noi. Abbiamo fatto con lui il punto sull’evoluzione dei network e sul modo in cui il nostro quotidiano e il nostro modo di vivere si modellano intorno alla disponibilità di nuovi strumenti, che ci connettono tra noi e che ci danno accesso alla conoscenza. Rispetto a un paio di anni fa, quando tutta l’attenzione era concentrata sul web e sui social network, oggi la trasformazione sembra tutta spostata verso l’accesso mobile. Come vedi lo scenario e la forza che stanno acquistando i recinti chiusi delle piattaforme? Innanzitutto separerei i due concetti. Non c’è nulla nel mobile computing che implichi l’utilizzo dei walled garden, come nell’approccio di Apple. Personalmente sono molto preoccupato dalla logica che rende alcuni tipi di siti web più accessibili di altri, soprattutto quando la decisione viene mediata da una società che dimostra di preferire siti gestiti commercialmente rispetto ai siti amatoriali. Vedo questa spinta verso l’approccio del walled garden come una preoccupazione per nulla differente da quelle sull’attacco alla neutralità della rete. In gioco ci sono gli stessi principi. Apple ha reso seducente la confezione dei contenuti per un gran numero di consumatori, mettendoli in un pacchetto nuovo e patinato che vende come una soluzione per fare le cose in modo più semplice. Come se tutto fosse più facili da usare. Ma io spero che la domanda del pubblico faccia un po’ resistenza contro questa spinta, senza per questo rallentare l’adozione del mobile, perché queste tecnologie cambiano in qualche modo alla base l’accesso e la distribuzione delle informazioni. Faccio un piccolo esempio: mia moglie, quando parcheggia l’automobile, scatta una foto per ricordare dove ha parcheggiato. Questo è un uso della fotografia che sarebbe stato inimmaginabile anche solo una decina di anni fa. La fotografia diventa parte del suo processo cognitivo, una protesi per la sua memoria a breve termine. Allo stesso modo, quando discutiamo, ci basta accedere al computer portatile per confermare o correggere rapidamente le informazioni di cui stiamo parlando. E così via. Ognuno di noi ha un rapporto diverso con questi dispositivi e con le informazioni, e naturalmente anche io sono convinto che sia un grande vantaggio poterle personalizzare e scegliere quale applicazione o contenuto avere sul nostro dispositivo, in modo da dare la priorità a ciò che meglio asseconda i nostri interessi. Ma vorrei che queste decisioni fossero prese da me e non da qualche azienda. Nicholas Carr ha detto che Internet ci rende stupidi: lo credi anche tu? Nicholas Carr è uno dei più astuti e riflessivi promotori dell’idea che l’ascesa dei nuovi media comporti diverse minacce per la cultura del libro. Credo tuttavia che la discussione si stia muovendo oggi in una direzione molto più produttiva e civile. Lo stesso Carr accetta un’analogia che uso spesso, alludendo al Fedro di Platone in cui Socrate sostiene che l’adozione della lingua scritta rappresenti una minaccia per la memoria, che è centrale nella cultura orale. La realtà è che si è perso qualcosa con l’avvento della scrittura prima e della stampa poi, ma ci sono stati anche molti progressi per la conoscenza umana e  per la cultura. Sarebbe sciocco voler tornare indietro. Dal mio punto di vista, il problema delle argomentazioni di Carr è che sono costruite come un punto di determinismo tecnologico: i mezzi di comunicazione che usiamo riscrivono il modo in cui il nostro cervello funziona e, sempre secondo Carr, ci obbligano ad abbandonare vecchie competenze  che sono culturalmente valide. Io non sono d’accordo su questo, come non sono d’accordo con Stephen Johnson quando dice che tutto quello che ci fa male ci fa bene. Dalle idee di Johnson, che pescano negli studi sul cervello, emerge l’idea contraria: i computer ci stanno rendendo intelligenti. Sono solo due facce opposte della stessa medaglia. Per me, invece, la questione importante non è ciò che la tecnologia sta facendo a noi, ma ciò che stiamo facendo noi con la tecnologia. Le tecnologie hanno caratteristiche intrinse che che rendono alcune cose più facili da fare e altre più difficili. Ma sono anche inserite in un contesto culturale che ci rende più o meno propensi a utilizzare queste opzioni in modi diversi. Se la tecnologia non si adatta al contesto culturale, la tecnologia può essere adottata o non essere adottata, o addirittura può essere adattata per nuovi scopi. Consideriamo, per esempio, il fatto che Thomas Edison inventò il fonografo come strumento per l’ufficio: doveva essere qualcosa di simile a un dittafono. Poi lo ha provato in alcuni spettacoli pubblici, e solo alla fine abbiamo avuto l’utilizzo dell’apparato come strumento per l’intrattenimento domestico. Io sono sempre diffidente quando leggo di argomenti che partono dal presupposto che la tecnologia ci ha fatto fare qualcosa. In ogni caso, ed è l’aspetto più importante, ci sono molte evidenze scientifiche che indicano come molti di noi stiano utilizzando la tecnologia in modi che ci rendono più intelligenti. Anche se sarebbe più preciso parlare di modi che ridefiniscono ciò che intendiamo per “intelligente”. Ho partecipato a un progetto su larga scala della Fondazione MacArthur, che aveva l’obiettivo di capire meglio come le persone stiano imparando attraverso l’utilizzo di piattaforme digitali multimediali e pratiche. Attraverso una serie di attività informali online – dai fan site a Wikipedia, dalla condivisione video al social networking – le persone stanno cominciando ad apprendere in modi nuovi, che migliorano la loro capacità di produrre e valutare le conoscenze e che ampliano le loro capacità di espressione. Stanno imparando a comunicare attraverso una serie di diverse forme mediali. Imparano a collaborare e a condividere la conoscenza per rispondere collettivamente a domande molto più complesse di quanto si potrebbe fare da soli. I singoli individui stanno imparando a condividere pezzi di media l’uno con l’altro, costruendo nuovi significati, lavorando insieme per filtrare il disordine e per concentrare l’attenzione sulle cose che invece hanno per loro valore. Naturalmente non è una regola generale. È facile vedere anche esempi di idiozia collettiva. Non sto affermando che le “buone pratiche” rappresentino l’intera gamma di quello che facciamo online. Ma non credo neanche che le preoccupazioni di Carr rappresentino la situazione generale. Siamo in un momento di transizione, la nostra cultura sta imparando a usare nuovi strumenti e nuove piattaforme, a sviluppare nuove competenze e  nuove pratiche. Serve un dibattito rigoroso su quali davvero possano essere le pratiche migliori. Per questa ragione, nella misura in cui gli scritti di Carr riescono a stimolare un sano confronto, accolgo con favore il loro contributo. Il pericolo è quello di rafforzare i pregiudizi esistenti e scoraggiare la formulazione di domande più strutturate sul valore culturale e intellettuale dei nuovi media. Certi argomenti spesso rischiano di sembrare profondamente radicati nei vecchi modi di pensare e nelle gerarchie di valore esistenti, invece di rimanere aperti alle prospettive di innovazione culturale e di scoperta collettiva che assomigliano molto alla mia esperienza quotidiana della nuova era dei media. Io ho un grandissimo rispetto per la cultura dei libri – ne ho scritti 13 e ne ho diverse migliaia nella mia biblioteca personale. Questa cultura è effettivamente a rischio e la literacy tradizionale può essere in pericolo. Ma il mio obiettivo è vedere crescere una cultura in cui si legge con un libro in una mano e si ha un mouse nell’altra. Una cultura in cui tutti noi abbiamo la capacità di adeguare la nostra alfabetizzazione in modo da utilizzare al meglio i media e in modo da assecondare le nostre attività. Come credi che cambierà l’ecosistema dell’informazione nel prossimo futuro? Oggi come oggi sta vivendo una rapidissima evoluzione, che avviene a diversi livelli, da quello professionale a quello semi-professionale, da quello dei dilettanti a quello dei giornalisti. Per non parlare dei vari livelli globali, nazionali, regionali e iperlocali. Non c’è modo per sintetizzare in poche parole la complessità di quello che sta accadendo, ma credo che due storie di questa estate illustrino bene i numerosi punti di contatto tra tanti diversi tipi di pratiche giornalistiche. Il primo esempio è il rilascio di documenti del governo degli Stati Uniti attraverso Wikileaks. È probabilmente la serie più importante di materiali fuoriusciti dai tempo dei Pentagon Papers, quando molte notizie erano trapelate grazie al lavoro del New York Times (e del Washington Post) durante la guerra del Vietnam. E il caso di Wikileaks è ancora  più significativo perché i documenti vengono da un’agenzia di stampa non convenzionale, che li ha rilasciati come risorse a disposizione degli altri giornalisti e del pubblico, che così possono esaminarli. È saltata la mediazione di una notizia accompagnata dal reporting e dall’analisi degli esperti che prendono i fatti e li inseriscono in un contesto più ampio per il lettore. Il secondo esempio è la polemica sul caso di Shirley Sherrod, una burocrate di medio livello dell’Amministrazione Obama, che è diventato una pedina in una lotta di potere tra il movimento del Tea Party e la NAACP.  La vicenda si è conclusa con il licenziamento della Sherrod. In questo caso abbiamo osservato la circolazione sul web di video che sono stati decontestualizzati e ricontestualizzati da dilettanti, e successivamente strumentalizzati dalla stampa partigiana,  dai blogger più influenti fino a Fox News e ad altre agenzie di stampa in grado di creare un forte impatto sul pubblico. E la conseguenza è stata che le polemiche su un licenziamento hanno avuto molta più attenzione e copertura mediatica di una discussione su una legge importante, cui si lavorava da mesi, in grado di ridisegnare il settore finanziario americano. Ma allo stesso tempo, la Sherrod è stata in grado di correggere la falsa informazione e le manipolazioni, recuperando e diffondendo la registrazione completa del suo discorso. E anche questo è un punto che riguarda da vicino le caratteristiche intrinseche dei nuovi media. Ci si può chiedere, in entrambi i casi, se l’ecologia dell’informazione stia eseguendo bene o male il proprio compito, a seconda della nostra concezione di quale sia la missione del giornalismo e di quale sia l’esigenza d’informazione dei cittadini. Ma i due esempi suggeriscono che la notizia si diffonde utilizzando schemi differenti da quelli cui siamo abituati, schemi modellati da player molto diversi rispetto al passato. In entrambi i casi, non possiamo capire che cosa è successo semplicemente leggendo una contrapposizione tra media vecchi e nuovi: non è così semplice, perché un processo che coinvolge varie forme di collaborazione e di critica nei diversi settori dei media. Gli ebook stanno cambiando profondamente l’editoria. Come immagini il futuro? E che cosa ne pensi delle forme di self-publishing che stanno emergendo? L’idea di una società senza carta non è sicuramente nuova. Se n’è parlato per metà del XX secolo. Il computer avrebbe dovuto preannunciare l’età dell’ufficio senza carta. Come è la situazione invece? Sicuramente stiamo producendo più testi, siamo stampando più documenti e copiando cose con più confusione di prima. Sospetto che ci troviamo in una fase simile, in cui alcune funzioni della stampa si sposteranno sui dispositivi digitali. Per esempio, c’è molto entusiasmo per il modo in cui le riviste possono reinventarsi con le potenzialità multimediali dell’iPad. E ci sono anche alcuni segnali che mostrano come il pubblico sia più propenso a comprare certi tipi di libri sul Kindle che non in forma stampata. In generale, il rapporto tra il pubblico e il libro a stampa è cambiato molto tempo fa. L’americano medio possiede solo due libri, ma c’è una sottocultura (a cui io appartengo) che possiede migliaia di libri. Credo che quelli di noi che amano i libri saranno i più lenti ad abbandonare dalla pagina stampata. Stiamo vivendo un periodo di riconfigurazione, che sarà caratterizzato da un sacco di esperimenti sul modo in cui accediamo alle informazioni e sullo spostamento di alcune funzioni tra i dispositivi in grado di distribuirle. Uno dei vantaggi è che c’è una nuova apertura verso la pubblicazione indipendente o verso l’autopubblicazione. Da blogger accademico devo dire che i media digitali mi permettono di condividere le mie idee con un pubblico molto più ampio di quanto sarebbe possibile con un libro, proprio a causa delle funzioni di gatekeeping che circondano la parola stampata. Gli editori tradizionali limitano la circolazione del mio lavoro, diffondendolo tra i lettori accademici che dovrebbero essere il target primario. Il blog invece può muoversi tra diversi tipi di pubblico e di ampliare la discussione sul mio lavoro. Il self-publishing può anche permettermi di distribuire le mie idee in modo più veloce, soprattutto considerando la burocrazia che rallenta la pubblicazione di un libro. Naturalmente, la crescita dell’autopubblicazione implica che la necessità di costruire nuovi sistemi sociali e nuovi modi per filtrare e valutare i contenuti. Anche questo sarà un territorio di sperimentazione nei prossimi decenni. Quali sono secondo te le tre tendenze più significative da seguire dopo questa estate? Ho sempre difficoltà a rispondere a queste domande perché io non sono un trend-spotter di per sé. Di solito osservo gli sviluppi a lungo termine che impattano sul modo in cui funziona la nostra cultura. Da quando ho scritto Cultura convergente, abbiamo visto arrivare la nascita del web 2.0, nuovi modelli di business, Twitter, Facebook e i social network. E ancora: YouTube, l’iPhone e l’iPod, Second Life e una gamma di altre piattaforme specifiche e pratiche. Tutte queste  innovazioni, però, sono parte della la stessa logica: accrescere la capacità della gente comune di partecipare in modo significativo a un processo importante, quello di modellare la produzione e la diffusione della nostra cultura. Questo è il tratto più importante che caratterizza l’evoluzione dei media nel XXI secolo. Detto questo, io credo di avere molti spunti e molte occasioni per osservare il processo di cambiamento dei media. Alcuni di questi spunti li abbiamo già citati. Vorrei aggiungerne un paio. Con la fine della scorsa stagione televisiva, molte delle serie cult che hanno segnato la nascita della “televisione d’ingaggio” hanno terminato il loro ciclo. Lost, Heroes, 24, Ghost Whisperer, Ugly Betty, tra queste. Si tratta di produzioni che pur passando sui media broadcast hanno funzionato altrettanto bene, se non meglio, attraverso i canali di distribuzione alternativi. E lo hanno fatto attraverso la definizione di particolari forme di contenuto serializzato e costruendo rapporti specifici con il loro pubblico. Detto questo: che cosa succede ora? Quali saranno le nuove serie televisive contribuiranno a definire la prossima fase di “televisione d’ingaggio”? Quali rapporti si instaurano con gli spettatori? E continueranno a spingere l’industria fino a farle rivalutare i suoi sistemi di misurazione degli ascolti e di valutazione dei risultati? Poi, in autunno avremo una nuova stagione elettorale negli Stati Uniti. Abbiamo visto che i processi politici sono una delle forme principali attraverso cui plasmiamo il nostro rapporto con le nuove piattaforme di comunicazione. Nelle mie ricerche ho mostrato come le tecniche che sembravano all’avanguardia in un ciclo elettorale vengano poi normalizzate nel successivo. Non c’è quindi una spinta costante verso la sperimentazione e l’innovazione. Credo che vedremo i politici che hanno assorbito l’insegnamento della campagna di Obama (e più recentemente, del movimento Tea Party) usare quelle stesse tecniche in modo tradizionale, mentre il dissenso cercherà di spingerle al livello successivo. La formazione, poi, continua a essere un altro territorio chiave in cui il pubblico combatte per costruire il suo rapporto con le nuove tecnologie multimediali e per sperimentare nuove pratiche. Da un lato, l’educazione è profondamente conservatrice, e tende a resistere ai cambiamenti che hanno un impatto altrove. Ma, dall’altro, c’è una crescente consapevolezza: le pratiche esistenti spesso non rispondono più ai bisogni di una generazione che è cresciuta in una cultura di rete. In tutto il mondo, stiamo osservando tentativi di immaginare in modo diverso l’istruzione per il XXI secolo, ma c’è ancora da combattere molto contro lo status quo.

L'autore

  • Giuseppe Granieri
    Autore, docente ed esperto di comunicazione e cultura digitale.
    Il suo bookcafe.net, fondato nel 1996, è stato uno dei primi siti letterari e blog italiani. Ha collaborato con testate come Il Sole 24 Ore, l’Espresso, La Stampa e firmato diversi saggi per l'editore Laterza.

    Foto: Enrico Sola.

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