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Se il tuo lavoro lo capisce anche un software

30 Novembre 2011

Se il tuo lavoro lo capisce anche un software

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Che relazione corre tra automazione e disoccupazione, in una società del lavoro dove ormai sono gli stessi robot a produrre i robot?

Automazione e disoccupazione vanno di pari passo? Non serve essere dei neoluddisti per constatare che la possibilità di far svolgere a delle macchine tutta una serie di funzioni semplici e ripetitive ha da tempo portato alla scomparsa o alla forte riduzione del fabbisogno di manodopera umana in una serie di settori. Dai casellanti delle autostrade, ai lavoratori dei call center, agli addetti agli sportelli bancari , agli operai delle catene di montaggio l’elenco potrebbe essere molto lungo. Alcune fabbriche del settore automotive, in Giappone, sono ormai totalmente affidate ai robot; vengono definite “lights out” perché non avendo tali automi bisogno di illuminazione, gli impianti possono funzionare anche nell’oscurità quasi totale, risparmiando sul costo dell’elettricità.

Clessidra

In altre fabbriche, robot producono altri robot, in un circolo vizioso che fa sì che per chi è espulso dal mercato dal lavoro non riesca più a trovare un impiego, come avveniva in passato, nella realizzazione o messa a punto delle nuove macchine. Lo spettro occupazionale, nei paesi  cosiddetti “avanzati”, non assomiglia più a una piramide ma a una clessidra, alla cui estremità inferiore si trovano i lavori a basso reddito che non è stato ancora possibile automatizzare. Nella fascia superiore si trovano invece le professioni ben pagate che richiedono abilità complesse come l’interpretazione di testi giuridici o il marketing. Erik Brynjolfsson, direttore del Centro per il Digital Business alla Sloan School of Management del MIT e co-autore col collega Andrew Mc Afee dell’ebook Race Against the Machine: How the Digital Revolution Is Accelerating Innovation, Driving Productivity, and Irreversibly Transforming Employment and the Economy, spiega in maniera chiara e concisa il perché di questa evoluzione «Le persone che cercano lavori in cui qualcuno gli spiega punto per punto quello che debbono fare, devono capire che questo tipo di impieghi è destinato a scomparire. Per un motivo molto semplice: se è possibile spiegare in maniera così dettagliata un compito, allora è anche possibile scrivere un software che faccia le stesse cose».

Il libro di Brynjolfsson e Mc Afee sta suscitando un forte dibattito negli Usa. I due però non hanno fatto altro che proporre in forma più accattivante e discorsiva conclusioni a cui alcuni loro colleghi erano arrivati da tempo. I ricercatori David Autor e David Dorn lavorano da un anno mezzo circa al rapporto The Growth of Low Skill Service Jobs and the Polarization of the U.S. Labor Market, un work in progress disponibile online dove gli autori cercano di spiegare come mai all’aumento del prodotto interno lordo delle nazioni corrisponda più un miglioramento delle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione e crescano, anzi, le disuguaglianze. E individuano due cause principali:  la globalizzazione (intesa anche come possibilità di far viaggiare velocemente quel particolare tipo di merce che sono le informazioni, per cui, si può affidare una traduzione o un lavoro di programmazione a un ingegnere indiani pagandolo dieci volte di meno) e appunto, l’innovazione tecnologica. Autor e Dorn sottolineano come, con i continui progressi di quest’ultima diminuiscano anche le professioni che possono dirsi “al riparo” dall’automazione.

Soli insieme

Prendiamo un settore delicatissimo come l’assistenza infermieristica: già ora, la necessità di personale umano fisicamente presente accanto al malato, in mercati evoluti come quello americano, è parzialmente obsoleta grazie ai progressi nei sistemi di controllo a distanza: sensori che monitorano respiro, battito cardiaco e spostamenti del paziente e inviano dei rapporti a distanza sotto forma di Sms o email. Con l’evoluzione della robotica personale, i badanti in carne e ossa saranno sempre meno richiesti, anche solo come fonte di compagnia e conforto. Nel suo ultimo libro Alone Together, l’antropologa Sherry Turkle racconta delle ultime generazioni di robot domestici, dai semplici giocattoli come l’animaletto Furby a macchinari più sofisticati in grado di capire quando qualcuno gli sta parlando, analizzare le sfumature e il tono della voce e rispondere con movimenti del capo e con un’espressione del volto se non umana, perlomeno adatta alla specifica situazione. Con il vantaggio, rispetto alla loro controparte umana, di non perdere mai la pazienza e di rispondere sempre in maniera garbata.

L’aumento del grado di istruzione della popolazione è senz’altro una delle soluzioni per combattere la “disoccupazione tecnologica”, ma non basta. Un tempo si pensava allo studio come passaporto per la tranquillità futura, ma non basta più una laurea o un diploma per avere la garanzia di accedere a uno stipendio dignitoso. Un po’ per la diffusione ormai capillare di questi titoli, un po’ perché nemmeno chi svolge una professione “intellettuale” è insostituibile. In Corea del Sud si sta sperimentando, nella scuole elementari di Daegu, vicino a Seul, l’utilizzo di insegnanti robot. In questo caso non c’è una vera e propria sottrazione del lavoro, perché tali “maestri” sono pur sempre comandati a distanza da docenti umani. Solo che, qui sta il trucco, si tratta di professori filippini, che costano molto meno di quelli locali e non possono iscriversi ai sindacati. Con gli sviluppi dell’intelligenza artificiale è possibile che in futuro non ci sia bisogno nemmeno di ricorrere a simili stratagemmi ma dietro la cattedra sieda una macchina senziente.

La fine del lavoro

Qualche mese fa ha fatto notizia Watson, il supercomputer di IBM in grado di battere i campioni umani del gioco a quiz Jeopardy. Il risultato è servito a Big Blue, oltre che come efficace strumento di pubbliche a testare le capacità di Watson in vista di suoi impieghi in campi ben più seri della partecipazione a un programma televisivo: l’idea è quella di un suo utilizzo in campo medico, come consulente per la diagnosi e il trattamento dei pazienti. E le qualità che fan sì che possa essere prezioso in questo campo – la capacità di consultare in un tempo brevissimo sterminati database di dati e di inferirne i giusti collegamenti – lo renderebbero un candidato plausibile per affiancare i decisori umani in qualsiasi altro settore, a fronte di una programmazione adeguata. Ci aspetta dunque un futuro in stile Matrix, in cui il rapporto uomo-macchina è ribaltato, con il primo totalmente rimpiazzato dalla seconda? Non necessariamente, ma a leggere sia  Brynjolfsson che Mc Afee che Autor e Dorn è chiaro che non ci sono soluzioni facili o ben definite. Una via d’uscita potrebbe consistere in una sorta di training permanente di intere fasce di popolazione per renderle pronte a trarre profitto a livello professionale dai cambiamenti tecnologici in corso, senza farsene sopraffare.

Un’altra scappatoia, più efficace, forse, ma anche più difficile da realizzare, è quella di capovolgere l’attuale impostazione economica delle società occidentali, considerando la produzione di ricchezza non come appannaggio di qualche singolo a scapito della maggior parte degli altri individui, ma come una conquista collettiva di cui andrebbero in qualche modo ridistribuiti i profitti. La “fine del lavoro” intesa non come un dramma, ma come l’opportunità di ripensare il ruolo dell’individuo nella società. Il fatto che si possa anche solo accennare a discorsi simili – che ricordano vagamente quelli comunisti – in una realtà che li ha sempre aborriti come quella americana, è la più eloquente testimonianza di quanto profonda sia la crisi.

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