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Se Facebook ci somiglia troppo

06 Marzo 2009

Se Facebook ci somiglia troppo

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Visto attraverso la rete sociale sui social network, il mondo rischia di aderire troppo al nostro punto di vista. Questione di affinità e di gravità delle amicizie. A meno di non fare gli infiltrati

Sono rimasto un po’ perplesso quando un mio conoscente l’altro giorno è sbottato in un «Sì, ma Facebook è di sinistra». Alla mia richiesta di delucidazioni ha risposto motivando l’affermazione dicendo che non aveva mai visto nessun commento o post orientato a favore di Berlusconi e del Governo: e già che c’era ha rincarato la dose affermando in pubblico che Facebook è roba da trentenni-quarantenni, visto che non ci ha mai incontrato uno più giovane. Classica sindrome del “pensare, perché?”. In effetti però, Facebook può facilmente trarci in inganno.

Quel che scegliamo di vedere

Come tutti i social network, funziona sulla base di un principio di gravità dove i corpi attirano i corpi (intesi in senso fisico, cioè voglio dire astronomico – guai a voi se pensate male). Un principio dove ogni simile attira il suo simile e dove solo raramente gli opposti si attraggono, anzi dove la regola è spesso ignorare quelli che sono distonici con il nostro modo di essere e di sentire. Mettiamola così: è altamente improbabile che un ragazzino diciottenne decida di diventarmi amico: la differenza di età, di cultura, di interessi mi rende per lui assolutamente non interessante. Mi trovano invece interessanti, e chiedono di interagire con me, persone che hanno un’età superiore e che, mediamente, lavorano nel campo dell’internet marketing – o che almeno lo vorrebbero fare.

Dal mio punto di osservazione, quindi, un 80% dell’audience Facebook sarebbe composta da addetti ai lavori della rete e sarebbero pochissimi quelli che non se ne occupano professionalmente. Non fosse che, visti i numeri di utenti di Facebook (in Italia, si dice, quattro milioni) non è possibile che il nostro comparto sia così forte da occupare un 7-8% della popolazione. Banale, ma ingannevole: se il ragazzino non mi invita nel suo network di amicizie, non avrò mai l’opportunità di osservare una popolazione, una cultura diversa dalla mia da un punto di vista etologico (con l’abito mentale dello studioso di ecosistemi: vi ricordate Konrad Lorentz che assisteva alla schiusa delle uova delle papere e quelle andavano in giro tutta la vita convinte di essere degli etologi?) .

Ovvio che ognuno di noi si circondi di persone che gli somiglino, che elimini dai propri amici quelli dissonanti o fastidiosi (per esempio politicamente). Il tutto ci porta a quello che è forse il rischio maggiore per un addetto ai lavori della comunicazione: non avere una visione corretta della realtà, anzi averla falsata e distorta.

Operare sotto copertura?

È comunque inoppugnabile che a siti diversi corrispondano audience diverse, come viene perennemente ripetuto confrontando Facebook con MySpace e con LinkedIn. Ma, tornando ai famosi quattro milioni di Facebook, è sensato pensare che il target sia un po’ più variegato rispetto a quello che ci appare dal nostro osservatorio poco privilegiato, da dove vediamo molto, tranne la realtà. Il nostro Facebook in fondo è come un giornale di partito, quell’Unità dei vecchi tempi, dove chi la leggeva aveva solo quelle buone notizie (e soprattutto quelle cattive) che si attendeva e che lo riconfermavano nella sua ortodossia.

Nella vita privata, comunque, liberi tutti di crogiolarci nel già noto, nell’atteso, nella riconferma, nella mancanza di dissonanze. È una scelta – come quella di chi guarda solo un telegiornale piuttosto che un’altro, o che non lo guarda affatto per non ricevere brutte nuove, stressarsi, fare i conti con messaggi ansiogeni. Nel lavoro è diverso: è imperdonabile cadere in questa trappola se con i social network dobbiamo farci attività professionali. La regola numero uno è quella di conoscere il mercato, il target, le persone, le culture. E su Facebook, sui social network che funzionano sul principio della cellula chiusa, questo non è possibile in modo così facile e automatico come ci hanno invece abituato siti web e blog.

L’unico modo di essere dei bravi ricercatori è dunque quello di fare gli infiltrati. Se non è etico manipolare le persone sotto una falsa identità (e potenzialmente passibile di multoni se ciò è fatto a fini commerciali), diverso è farlo a scopo di studio e di ricerca, osservando molto ma interagendo il minimo. Questo implica ad esempio un’attività di infiltrazione e penetrazione, che inevitabilmente richiede un’attività sotto copertura – come un agente dell’antidroga. Implica costruirsi uno o più profili finti (a puro scopo di studio).

Forse, se un po’ più di persone si fossero travestite e si fossero mescolate agli indigeni, di età e culture diverse dalle loro, avremo un po’ meno soloni, catoni o alberoni che – professionalmente o giornalisticamente – ci raccontano di una realtà troppo spesso vissuta solo per sentito dire.

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