Siamo d’accordo sul fatto che l’ipotesi degli algoritmi che sostituiscono i cronisti sportivi è concreta, ma lontana nel tempo. Come promesso, veniamo a qualcosa di più interessante: il software che sostituisce gli autori dei libri.
Philip M. Parker, docente in una scuola francese di management, ha fondato ICON Group International per amministrare il suo lavoro di scrittore di algoritmi che scrivono. Ad aprile 2008, riferisce il New York Times, aveva già pubblicato 200 mila volumi su Amazon. Oggi Parker afferma di avere passato il milione di pubblicazioni.
C’è il trucco: la mezza dozzina di programmatori stipendiati da Parker controlla alcune decine di computer perché essi assemblino in forma più o meno leggibile lo scibile umano esistente su argomenti di nicchia, nell’accezione più estrema del termine. Spesso l’opera consiste in raccolte di grafici e tabelle con un intervento redazionale da nullo a infimo.
Siccome programmare un genere costa 200-500 mila dollari secondo le stime di Parker, ma generare un libro richiede dodici centesimi di elettricità, ecco che The Official Patient’s Sourcebook on Acne Rosacea oppure The 2007-2012 Outlook for Tufted Washable Scatter Rugs, Bathmats and Sets That Measure 6-Feet by 9-Feet or Smaller in India assicurano un profitto anche senza scalare le classifiche: c’è sempre almeno un lettore disposto a pagare per una buona ricerca specialistica su Internet. Tutto qui? Dipende. Scrive Gini Graham Scott su Huffington Post:
L’azienda ha creato cruciverba, libri di poesie, una serie di bigini con il marchio Webster’s e sta lavorando a software per produrre romanzi rosa, spesso scritti in base a una formula semplice. […] Un’altra azienda, EdgeMaven, sta usando i database e i brevetti di Parker per creare libri, giochi e video per i propri clienti, applicando formule a generi per elaborare conclusioni a partire dai dati a disposizione e presentare per esempio rapporti econometrici o altro materiale come avrebbe potuto produrlo uno specialista del settore.
Siamo davvero lontani dai meccanismi che hanno reso popolare una Liala, un Wilbur Smith, un Bruno Vespa? Dopotutto un libro scritto dal computer – previ otto mesi di programmazione del software per settantadue ore di generazione del testo – è nato già alcuni anni fa. La moderna produzione libraria di fascia bassa, magari sparisse a colpi di algoritmo.
Robbie Allen, creatore di Automated Insights e dei resoconti sportivi automatizzati di cui si è parlato l’altra volta, con il pretesto di tracciare la linea tra il lavoro editoriale automatizzabile e quello che invece no, fornisce una definizione semplice e potente di quello che ci rende umani oltre la nostra capacità di elaborare dati e tirare conclusioni:
Ci sarà meno bisogno di spendere tempo nella scrittura di pezzi puramente quantitativi, ma questo dovrebbe essere liberante. Gli autori potranno focalizzarsi su pezzi più qualitativi, a valore aggiunto, che gli umani sono bravi a scrivere. I pezzi quantitativi possono e probabilmente dovrebbero essere automatizzati.
Probabilmente non c’è niente di male nel leggere cose scritte da un algoritmo. In un certo senso, lo facciamo già quando apriamo il meteo sullo smartphone. È OK anche leggere cose che potrebbero essere state scritte da un computer pure se non lo sono, come certi blog da copiaincolla o appunto letteratura schematica. Secoli di pornografia attestano che anche ripetitività e prevedibilità hanno un loro richiamo. Le trame possibili sono trentasei.
Checché ne dicano snob, repressi, radical chic e ditini alzati, il lettore sceglie i libri che gli piacciono con libertà inviolabile e giudizio inappellabile. La concorrenza informatica potrebbe al più preoccupare gli autori, posto che usino una formula “infallibile” e ripetitiva. Se al contrario scrivono come esseri umani, quella specie fragile e indomabile capace di uscire con una mossa a sorpresa da qualsiasi algoritmo – i grandi scacchisti lo sono quando rovesciano il tavolo della teoria – nessun problema.