La pratica illegale del cybersquatting, cioè dell’usurpazione di un marchio o di un segno distintivo altrui, è ormai sempre più diffusa online nella nuova forma del position squatting.
Si tratta dell’acquisto da un motore di ricerca, da parte del titolare di un sito Internet, di una parola chiave corrispondente al marchio di un’altra società – soprattutto imprese concorrenti – che viene utilizzata per comparire ai primi posti tra i risultati ottenuti dagli utenti con la ricerca online e sviare così la clientela verso i propri prodotti. Del problema si è già parlato di recente in questo sito.
Attualmente, per combattere il fenomeno, non è utilizzabile la speciale procedura adottata dall’ICANN, perché riguarda esclusivamente le controversie tra titolari di marchi e di nomi di dominio.
Il WIPO ha creato una procedura specifica relativa alle parole chiave che è, però, limitata ai casi di acquisto delle parole dagli intermediari di Real Names e Common Names. Il primo ha recentemente annunciato l’imminente chiusura e il secondo, con sede in Inghilterra, riguarda solo l’acquisto di parole chiave da internauti e messaggerie elettroniche. Perciò, tutte le parole chiave acquistate dai motori di ricerca sfuggono a questa procedura e non resta che ricorrere a un giudizio ordinario.
In attesa della definizione di regole uniformi e generali, il giudizio, generalmente, viene instaurato nei confronti dell’acquirente della parola chiave e consiste in un’azione, secondo i casi, per contraffazione del marchio, per concorrenza sleale, per la tutela del diritto d’autore, ecc.
Quanto alla responsabilità dei motori di ricerca che vendono le parole chiave, bisogna distinguere la vendita effettuata con modalità tradizionali da quella effettuata attraverso strumenti automatizzati.
Nel primo caso, la responsabilità del motore di ricerca è per lo più riconosciuta, dal momento che interviene direttamente nella vendita. Nell’ipotesi di vendita mediante strumenti automatizzati, invece, i motori di ricerca generalmente non vengono ritenuti responsabili se non sotto il profilo della colpa per imprudenza o negligenza, per non aver informato l’acquirente dell’esistenza del divieto di registrare una parola chiave corrispondente a un marchio altrui o per non aver predisposto sistemi di segnalazione, che consentano di ritirare immediatamente le parole chiave manifestamente illecite.
Il position squatting, in conclusione, resta un problema ancora aperto, come testimoniano alcuni recenti casi giudiziari di cui ci si è già occupati in questo sito.