Tra i vari inghippi del digitale, la questione-privacy pare rapidamente retrocessa in serie B. Negli Stati Uniti va cioè imponenedosi quella Database Nation evidenziata qualche anno fa nell’omonimo libro di Simson Garfinkel. Grazie soprattutto alla girandola di servizi, opportunità e transazioni garantite da internet, ormai pochi ci pensano su due volte prima di diffondere online i propri dati personali. E che dire della facilità con cui è possibile sapere quanti hanno un diploma superiore nel quartiere dove si vive? Oppure, quanti sono i bambini tirati sui dai nonni nell’area del proprio codice postale? D’altra parte, è vero che l’ubiquità di simili dati rende un’inezia ottenere una nuova carta di credito, o trovare indirizzo e telefono dei compagni di scuola di 10 anni fa. Sulla bilancia troviamo, dunque, non solo il marketing spietato, ma anche una vita più semplice e efficace. Basta “mandare un bacio d’addio alla privacy” come spiega l’editoriale di giugno del mensile Reason. Ma stanno davvero così le cose?
A sostegno di questa tesi, la rivista è arrivata a ciascun abbonato con in copertina una foto diversa, a colori e dall’alto, in cui compare nientepopodimenoche il proprio vicinato. Sotto, il titolo: “Sanno dove vivi! — i benefici non celebrati di una nazione-database”. Anche l’inserzione del retrocopertina è tagliata su misura per ciascun abbonato e il relativo quartiere. Oltre 40.000 copie personalizzate in tal modo, più altre 15.000, vendute nelle edicole, con la foto del vicinato dell’editor-in-chief in quel di Oxford, Ohio. Un’operazione realizzata in collaborazione con agenzie di direct marketing e altri servizi ad hoc, a dimostrazione del fatto che la ‘zero privacy’ è un ormai un realtà precisa e accettata. Ma non dobbiamo disperare, ci spiega all’interno con dovizia di particolari la lunga cover-story firmata da Declan McCullagh. Anzi, vediamo di esaltarne ed apprezzarne i lati positivi. Come?
Ad esempio: prezzi ridotti e maggiori scelte per il consumatore derivano (anche) dalla maggiore facilità di raccolta e condivisione dei dati da parte del mercato in generale. “La capacità di identificare quei clienti che hanno delle probabilità di non pagare il conto, consente ai negozi di avere offerte migliori per coloro che invece li pagano.” Mantenere una reputazione positiva, dunque, come pure una fedina penale cristallina è uno dei primi requisiti per funzionare al meglio nella moderna società dell’informazione — nel caso qualcuno non l’avesse ancora capito. Ricerche incrociate in innumerevoli database — in primis i pressoché obbligatori ‘credit report’ — che valgono non solo per i singoli individui, ma anche per le grandi corporation. Peccato che, attenzione, la normativa USA non specifica chi possa avere accesso a queste informazioni, in quali circostanze e con quali modalità. Per cui, udite udite, non mancano i casi di plateale infrazione alla privacy. Come quando, lo scorso anno, JetBlue fu la prima compagnia aerea a passare segretamente informazioni su 5 milioni di passeggeri a un agenzia privata che lavorava nel ‘data mining’ per l’amministrazione Bush. Nonostante querele in corso contro JetBlue e varie proteste, la pratica è stata recentemente confermata da altre aviolinee e oggi finisce generalmente nel dimenticatoio grazie alla solita fobia della guerra al terrorismo.
Anche perché, punto importante dello scenario a stelle e strisce, questa immensa circolazione di dati nel settore privato viene considerata da sempre alla stregua di ‘free speech’, e quindi con diritti e pratiche superiori alla privacy. La quale andava — e va — tutelata, per tradizione, quasi esclusivamente rispetto all’occhio attento delle agenzie governative. Ed è questo che rimane il “lato oscuro” della massiccia corsa verso la perdita di privacy in cambio di altri vantaggi. Occorre perciò aggiornare il Privacy Act del 1974 limitando vieppiù le possibili spiate dei politici. Ma, chiude convinto l’articolo di McCullagh, obiettivo finale è quello di “conservare i tremendi benefici di vivere in una database nation prevenendone la possibile evoluzione in uno stato di polizia.”
Sarà pure vero. Anzi, lo è di sicuro, almeno per una fascia di popolazione. Non mancano tuttavia le perplessità, come rileva la diffusa opposizione alla recente proposta di attivare un elenco telefonico nazionale che includa tutti i possessori di cellulari statunitensi. La proposta, annunciata a maggio dalla Cellular Telecommunications & Internet Association, è stata rapidamente seguita dalla presentazione, al Congresso e in alcune legislazioni statali, dei corrispettivi disegni di legge. Inclusivi, ovviamente, di opzioni per consentire l’esplicito permesso degli utenti e per evitare ai carrier di imporre nuove tariffe. Ma immediate si sono levate le proteste, a partire proprio dai comparti industriali: “La maggior parte della gente controlla con vigore il numero del cellulare. Ogni volta che sbucano fuori simili proposte, molti abbonati ci chiamano per dimostrare forte opposizione,” afferma John Rooney, presidente della U.S. Cellular di Chicago. Rincara la dose Bernard Beck, sociologo presso la Northwestern University: “Man mano che la vita diventa tecnologicamente più complicata, le persone…non vogliono far girare alcun dato personale, perché ogni giorno qualcuno s’inventa un nuovo modo per vittimizzarci.” Ovvio riferimento a furti d’identità, di numeri di carte di credito e così via, tutta roba che ormai non fa più notizia. Ma anche a fenomeni a dir poco fastidiosi quali il telemarketing e lo spam, che proseguono imperterriti nonostante le legislazioni ad hoc, soprattutto il secondo.
L’elenco nazionale dei cellulari è in programma per l’inizio del prossimo anno, ma alcuni provider hanno già detto che non ci staranno, a tutela della privacy dei propri abbonati, incluso il numero uno nazionale Verizon Wireless. Altri quali Cingular, Sprint e T-Mobile vanno studiando implementazioni individuali, e non prevedono comunque nulla di simile all’ampia portata dei comuni elenchi cartacei. Ma ovviamente l’idea fa gola: ad ogni chiamata potrebbe essere imposta una tariffa tra uno e tre dollari. Gli osservatori prevedono comunque che una ‘wireless directory’ nazionale non prenderà mai corpo, e se lo farà, la maggioranza degli utenti non vorrà includervi il proprio numero. Chissà…sarà vero?