Meno privacy e più sorveglianza, in cambio di una maggiore sicurezza. E ancora, meno privacy pur di avere servizi commerciali e condizioni d’acquisto migliorati. Equiparazioni divenute quasi la norma, soprattutto in quel mondo angloamericano che fino a poco tempo fa era campione della riservatezza personale. Ormai non ci stupisce più di nulla: la Database Nation è una realtà di fatto, come già riportato qui un paio di mesi addietro. Mentre, a parte una sparuta manciata di attivisti e nostalgici, tutti paiono accettare la diffusione di telecamere strategicamente disseminate nelle aree metropolitane. Stavolta tocca a Chicago, il cui sindaco ha appena annunciato implementazione di un cospicuo network di sorveglianza che ha come target i luoghi pubblici più frequentati. E non è che l’ultimo esempio di un trend in rampante ascesa.
Il progetto prevede l’installazione, entro la primavera 2006, di 2.000 telecamerine collegate a una rete che gira su un apposito software in grado di allertare prontamente le autorità in caso di attività sospette o situazioni d’emergenza. I responsabili cittadini si sono rifatti all’analoga iniziativa da tempo attivata tra hotel e casinò di Las Vegas. Anche l’area di Baltimora sta studiando qualcosa di simile, mentre svariate città USA vi ricorrono in occasione di grandi eventi che richiamano grandi folli in parchi e strade cittadine. Senza dimenticare il vasto network di sorveglianza da tempo operante a Londra: alcune stime riportano che il londinese medio viene controllato da 300 telecamere al giorno. Una serie di premesse che consentono al sindaco di Chicago di affermare: “Le telecamere sono l’equivalente di centinaia di paia di occhi. È la cosa più vicina ad avere poliziotti che stazionano ad ogni possibile angolo pericoloso.”
Il sistema verrà collegato alle attuali 30 telecamere in dotazione ad altrettanti ufficiali dediti specificamente alla repressione dei crimini violenti, e agli oltre 1.000 apparati che operano già all’O’Hare International Airport, nei trasporti pubblici e in spazi pubblici quali scuole e complessi residenziali. Le telecamere non verranno tutte monitorate contemporaneamente, ma ci penserà il software a dare la sveglia nel caso di attività fuori dall’ordinario, tipo borse abbandonate nel metrò o autoveicoli che si fermano improvvisamente sulla tangenziale. I vari responsabili si metteranno così davanti al video e attiveranno le necessarie misure di intervento. L’ampiezza di questa inter-operabilità è qualcosa di mai tentato finora in USA: non a caso il progetto viene finanziato, per un preventivo superiore ai 5 milioni dollari, dalla Federal Homeland Security.
Problemi di privacy? Macchè, tagliano corto i responsabili: le telecamere verranno installate solo in aree pubbliche, dove sostanzialmente la polizia ha già il diritto a sorvegliare e intervenire se del caso. E fin qui potrebbe anche andare, almeno sulla carta. Peccato che poi si viene a sapere che anche delle aziende private avranno accesso alle immagini del network. Motivo? Per raggranellare qualche spicciolo, anzi, tanti, pur se ancora non si danno tariffe. La perfetta combinazione tra settore pubblico e privato per garantire il massimo della sicurezza. D’altronde è noto come oggi gli americani non ci pensino su due volte “ad andare in giro nudi” se ciò li fa sentire più sicuri, almeno nelle intenzioni e nei messaggi diffusi dal governo. È questa la tesi di un libro uscito qualche mese fa, intitolato proprio “The Naked Crowd” (La folla nuda), in cui Jeffrey Rosen spiega come, dopo l’11 settembre 2001, si sia disposti a tutto pur di sentirsi più sicuri, ben al di là della situazione reale.
Professore di legge presso la George Washington University, l’autore del volume così inquadra la situazione in una intervista apparsa su Wired News: “Quel che interessa alla gente non è la privacy di per sé, ma il controllo sulle condizioni della propria esposizione pubblica. Gli stessi che affermano di non voler subire abusi dei dati personali sono perfettamente contenti avere webcam in giro. E quanti resistono alle telecamere di sorveglianza appaiono relativamente favorevoli a capitolare davanti al direct marketing in base alla teoria che in cambio ne ricaveranno dei benefici. Tutte queste non sono altro che sensazioni di controllo illusorie, tuttavia, e a meno che la gente non si preoccupi abbastanza della privacy così da tutelare innanzitutto la propria, non saranno in grado di abbracciare l’impegno politico necessario per resistere a forme intrusive di sorveglianza governativa e privata. Spesso soltanto quando l’abuso dei dati personali viene allo scoperto le persone comprendono i pericoli nel diffonderli, ma a quel punto è troppo tardi”.
E rispetto alla (presunta) sicurezza di progetti tipo quello di Chicago, Rosen spiega come queste tecnologie possano tornare utili nel senso che calmano la gente, sono semplici e relativamente poco costose. Eppure, aggiunge, “qualsiasi beneficio psicologico possano avere, viene superato dal fatto che finiscono per distrarre l’attenzione dalla ricerca di risposte al terrorismo che funzionino davvero”. Mettendo infine sull’avviso che comunque sia non è il caso di aderire a posizioni come quella espressa tempo fa da Scott McNealy (CEO di Sun Microsystems) per cui “abbiamo già zero privacy, meglio scordarsene”. Perché, attenzione, la riservatezza rimane un fondamentale diritto sociale ed è cruciale impegnarsi per tutelarla e garantirla, attivando soprattutto le necessarie norme o modifiche legislative.