“Quando un PC costa meno di 350 dollari, è impossibile continuare a usare Microsoft. Il motivo è che volendo stare sotto quella cifra, e guadagnare ancora qualcosa, non ci si può permettere di pagare il dazio Microsoft.” Questa l’opinione di Eric Raymond, che in tal modo non fa che sfondare una porta aperta, almeno per la comunità open source. Ma la recente intervista all’autore di “La Cattedrale e il Bazaar” è diretta al mercato (anglosassone) mainstream e vale quindi la pena di reiterare il concetto.
Soprattutto al di fuori dei paesi anglofoni, spiega Raymond, Linux e programmi affini attirano assai più del software generato e controllato dalle grandi corporation made-in-USA. Scenari basati su risparmio economico e schietto nazionalismo, comunque significativi proprio in quelle regioni in cui l’industria informatica va emergendo tra i motori trainanti dell’economia nazionale, vedi Cina e sud-est asiatico. È qui (ma non solo) che i prezzi dell’hardware in costante riduzione e la concorrenza sempre più agguerrita vanno rendendo il computer assai simile a un comune elettrodomestico. Tra non molto i modelli più semplici costeranno quasi quanto un sofisticato lettore DVD, non solo in USA. E i produttori appaiono sempre meno disposti a sborsare cifre relativamente esose per il sistema operativo e relativo software, cifre che poi finiscono per pesare sul portafoglio dei consumatori e ridurre ulteriormente i già risicati guadagni. La prova? L’attuale mercato dei PC palmari: mentre Microsoft primeggia negli apparecchi più costosi, è praticamente assente in quelli più economici. “Alla fine,” insiste Raymond, “il PC come bene di consumo e l’ampia diffusione di Internet renderanno obsoleto il software Microsoft relativamente costoso.”
Posizione quest’ultima che Raymond e il mondo open source condividono con aziende della stazza di Hewlett-Packard e IBM, i cui consistenti investimenti in quest’ambito si fondano sulla concreta speranza che quanto prima il sistema GNU/Linux sarà in grado di sfidare seriamente il monopolio Windows. Ciò anche per via del compito sempre più gravoso ed essenziale di ripulire dai tipici bug il software esponenzialmente più macchinoso del futuro prossimo. Operazione che assai meglio si addice ad una comunità di sviluppatori ampia e decentrata come quella dell’open source, piuttosto che ricorrendo al modello del software. Non è un mistero che la quantità di bug cresca in maniera direttamente proporzionale alla complessità dei programmi. Basti notare come di questi tempi la stessa Microsoft sia costretta a pedalare con gran fatica per riparare tempestivamente ai mille difetti dei vari software che si scoprono giorno dopo giorno. In altri termini, conclude Eric Raymond, il modello dell’open source funziona perché “tutti gli altri metodi di verifica si dimostrano sempre meno efficaci — al momento non esiste altra strategia in grado di operare meglio. In generale la gente va riscoprendo come la centralizzazione non funziona bene quando si raggiunge un certo livello di complessità a livello umano.”
Nell’attesa che la strategia open source dia vita a prodotti ancor più concorrenziali ed efficaci, ecco alcune recenti notizie dall’imprenditoria Linux. Opera ha diffuso la nuova versione del proprio browser per Linux. Secondo la società norvegese, Opera 6.0 è più veloce e facile da usare, oltre ad offrire opzioni utili ma finora assenti: importazione di bookmark e altri file, creazione di contact list, utilizzo di gran parte dei plug-in inclusi in Netscape. Sono stati inoltre aggiunti alfabeti non-romani, onde attirare l’utenza dei paesi asiatici e dell’Europa Orientale. Giunto alcuni mesi dopo l’omonima versione per Windows, il nuovo Opera per Linux è gratuito con l’inclusione di inserzioni pubblicitarie, altrimenti costa 39 dollari. Si spera così di bissare il successo ottenuto dalla versione 5.0 per Linux, che ha già superato il milione di download gratuiti.
Invece Red Hat e MontaVista Software hanno annunciato l’arrivo di sistemi operativi e strumenti di sviluppo per i nuovi processori di networking appena diffusi da Intel. Presentati nel corso del recente Intel Developer Forum, questi sono basati sui chip XScale e progettati per operare specificamente su macchine collegate in rete. Oltre a Linux, da tempo Red Hat ha messo a punto un sistema analogo ma più leggero (eCos) che opera efficacemente su computer dotati di poca memoria. Una nuova versione di eCos verrà resa disponibile per i processori IOP321 Intel, mentre MontaVista prevede di supportare i chip IXP2400, IXP2800, IXP425.
Sun Microsystems ha annunciato che subito dopo l’estate lancerà sul mercato una serie di server ultra-leggeri (“blade”) per colmare il gap accumulato nel settore. Due i tipi di macchine previsti: quelle che girano sull’accoppiata Intel-Linux, e le altre ‘proprietarie’ che usano UltraSparc e Solaris. Si tratta di una mossa importante e attesa, visto che in quest’ambito dalle ottime potenzialità Sun era stata battuta da diretti rivali quali Compaq Computer e Hewlett-Packard, oltre che da una start-up di primo pelo, RLX Technologies. Anche se, fanno notare gli esperti, il momento non pare dei migliori: i server ‘blade’ risultano efficaci per server Web pesanti, ma sono ancora in fase emergente e di questi tempi le grandi società info-tech hanno stretto i cordoni per ogni tipo di innovazione. Lo sanno bene anche i dirigenti Sun: “Non prevediamo potenziali guadagni fino a tutto il 2003,” chiarisce guardingo Colin Fowles, direttore del blade business team. Aggiungendo però come molte speranze siano puntate sulla popolarità di Linux in quest’ambito specifico: “Ogni prodotto dell’area blade è innanzitutto una diretta emanazione di Linux.” Ennesima riprova della piena fiducia accordata dall’azienda californiana al sistema open source, la cui gestione rimane affidata ai programmatori di Cobalt Networks, cui si deve l’introduzione di Linux nel giro Sun subito dopo l’inglobamento societario.
Bilancio in rosso, per chiudere, quello di Caldera International. Il primo trimestre fiscale del 2002, chiusosi il 31 gennaio scorso, ha riportato una perdita di 11 milioni di dollari a fronte di entrate pari a quasi 18 milioni. Nonostante ampie ristrutturazioni e l’esosa acquisizione di Santa Cruz Operation, con conseguente aggiunta di sistemi Unix, il business complessivo non si è ancora ripreso. L’azienda punta comunque sempre su Linux come punta di diamante, pur se dietro ai maggiori distributori USA. Per la chiusura dell’intero anno fiscale, 31 ottobre, Caldera prevede un netto incremento, con entrate comprese tra i 68 e i 72 milioni di dollari.