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Povero web, che brutta fine!

07 Settembre 2001

Povero web, che brutta fine!

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Concentrazione delle testate, surfing super-mirato, poco divertimento. Finiti i bei tempi del digitale?

Finiti i tempi del surfing scanzonato, va affermandosi l’uso del web in senso utilitaristico, predeterminato. Questo il succo di un articolo di fondo apparso la scorsa settimana sulla prima pagina del New York Times. Titolo: L’esplorazione del web passa dall’eclettico al mondano. Vi si ribadiscono tendenze in fondo nient’affatto nuove, a partire dalla concentrazione di gran parte dell’utenza su un pugno di siti, sempre gli stessi (dati alla mano forniti dalle maggiori agenzie). E mentre ci si interroga sulle illusioni perdute di un approccio più aperto e democratico, si afferma la duplicazione ad infinitum dei contenuti stessi in circolazione. Trionfa il tipico stile ‘old media’ che pur pareva impossibile nel nuovo medium, dinamico e frastagliato per natura. Con l’inevitabile abbassamento della partecipazione interattiva e della qualità del materiale reperibile online.

Bella scoperta, dirà qualcuno: forse che non ce ne fossimo già accorti da tempo? Bè, andatelo a raccontare a certi giornalisti (giornalisti?) nostrani, forse un po’ affaticati dall’afa estiva. È il caso, tanto per cambiare, di Repubblica.it che appena il 22 agosto scorso sparava questo titolo: “Internet sta benissimo, il traffico è quadruplicato, l’incremento record nell’ultimo anno.” Basandosi su recenti dati forniti da Lawrence Roberts, uno dei progenitori di Arpanet, ci si informa che nell’ultimo anno “il traffico di dati sulla rete è raddoppiato ogni sei mesi.” Ciò grazie soprattutto alle aziende bramose di essere sempre a disposizione dei consumatori pur a fronte dell’atteso riflusso che colpisce la new economy. Anzi, lo zoccolo duro del pezzo sta tutto nell’apertura: “la crisi delle dot-com non significa affatto che Internet stia male — tutto il contrario”. Meno male che qualcuno in Italia la sa più lunga del New York Times e soprattutto di numerosi esperti, osservatori e attivisti oltreoceano.

Intendiamoci: nessun dubbio sul fatto che i fattori quantitativi siano e saranno in costante aumento. Internet è destinata certamente a divenire ubiqua, forse ancor più in quelle situazioni e paesi dove la connessione wireless e/o via satellite si va imponendo prima dell’accesso al comune apparecchio e doppino telefonico. Da qui a scommettere sulla buona salute di Internet però il passo è fin troppo lungo. Troppo spesso, sembrano suggerire dati e ricerche, la crescita qualitativa risulta inversamente proporzionale a quella qualitativa. Ecco quindi che, ad esempio, Jupiter Media Metrix considera degni di nota soltanto 15 delle migliaia di siti che offrono informazioni sulla salute (in inglese), sulla base del relativo traffico generato. E di tali siti, appena tre sono stati quelli in cui si sono concentrate le visite del 43 per cento degli utenti per il mese di luglio. Nello stesso periodo, insiste ancora Jupiter, per quanto concerne le testate d’informazione il 72 per cento dei contatti spetta a tre siti tre: MSNBC, CNN e New York Times. Occorre forse aggiungere altro?

È d’altra parte vero che, sondaggio stavolta curato da Pew Internet e American Life Project, il 29 per cento degli utenti statunitensi spenderebbe più tempo online rispetto allo scorso anno. Ragione principale: ricerche scolastiche/accademiche o indagini professionali. Al contempo, il 17 per cento dichiara di trascorrerne meno. Per costoro, la navigazione sul web è semplicemente divenuta poco o nulla necessaria per il proprio quotidiano vissuto. Forse questo il punto: finita l’abbuffata e il surfing casuale, si ripiega su ambiti familiari, rassicuranti. Non più pomeriggi piovosi e notti insonni trascorse nel piacere della scoperta improvvisa, del clic facile verso territori inesplorati. Un po’ come aprirsi ad argomenti nuovi nel corso di un’estemporanea conversazione in treno. Come curiosare senza meta tra gli affollati scaffali di una grande libreria o biblioteca. Alla ricerca di scoperte, percorsi tanto casuali quanto significativi — incluse possibili delusioni, vicoli ciechi, sbandamenti.

Limpida al proposito l’analisi del New York Times: “L’infatuazione dell’America con il web come destinazione di avventure per il cybersurfing si è tramutata in una ricerca assai più mondana per uno strumento d’informazione che testimonia della rapidità con cui il web sia divenuto parte della vita quotidiana per così tanta gente”.

Certo, nel bene e nel male ciò comporta il ridimensionamento della ‘democrazia culturale’ innescata qualche anno fa nel frizzante mondo online. Come pure di una buona dose d’imprevisto divertimento. Ma come spiega Steven Johnson, co-fondatore dell’arguta rivista digitale Feed, tuttora congelata anche per via di tale ridimensionamento, “può darsi che il web si affermi come strumento di collegamento tra le persone piuttosto che in quanto canale per un’informazione e una cultura pluralista.” Continuano infatti a prosperare i siti che offrono racconti e impressioni di esperienze personali, come pure le ricerche su tematiche specifiche nei vari search engine — basti pensare nuovamente all’ambito medico-sanitario, ai viaggi, alle professioni emergenti. Contesti in cui, suggerisce qualcuno, acquistano maggior valore strumenti ancor più immediati dell’odierno web, dalle mailing list alla semplice ma efficacissima email.

Come andrà a finire? Chissà, forse tra poco le messaggerie — e ancor più gli SMS, almeno in Italia — finiranno col soppiantare del tutto (o quasi) il surfing online. O magari l’avvento della banda larga superveloce per le masse (davvero?) scombussolerà una volta di più le carte in tavola. Comunque sia, la speranza è sempre l’ultima a morire. Viva la qualità, abbasso la quantità — anche in Internet.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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