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Perché fare NFT di opere d’arte di pubblico dominio ha poco senso

30 Maggio 2022

Perché fare NFT di opere d’arte di pubblico dominio ha poco senso

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Gli NFT hanno vantaggi che si applicano poco o nulla ai capolavori del passato, per i quali spesso neanche esistono vincoli di copyright.

Opere d’arte e NFT sono stati pochi giorni fa soggetto di un servizio di Le Iene, con ricadute successive su testate come il Corriere della comunicazione e Artribune.

Innanzitutto capiamo qual è il (non) problema

Se un NFT è un modo innovativo per rendere unico l’esemplare digitale di un’opera creativa, certificarne la provenienza e tracciarne le varie cessioni sfruttando la blockchain, non si capisce ancora bene come questa soluzione possa essere applicata in modo giuridicamente ed economicamente sensato alle riproduzioni dei grandi classici della storia dell’arte (quadri, affreschi, sculture), di cui i nostri musei sono pieni e che tutto il mondo ci invidia (sempre che si possa davvero parlare di soluzione e non di una soluzione a un problema che non esiste).

Certamente può essere una soluzione sensata e opportuna per opere originali ancora sotto tutela di diritto d’autore; in quel modo l’artista che crea un’opera nativa digitale o un’opera analogica successivamente digitalizzata può trovare un nuovo modo per controllare la diffusione degli esemplari digitali e remunerarsi più agevolmente su ogni transazione che abbia ad oggetto l’opera stessa. Rimango dell’idea che vi sia eccessiva enfasi (spesso drogata dal classico effetto buzzword e da un sotterraneo intento speculativo) sul reale impatto che questo mercato potrà avere, ma indubbiamente è uno scenario interessante. In sostanza, si ricrea virtualmente l’effetto che nel mondo analogico si aveva quando uno scrittore alla fine di una conferenza ci autografava con tanto di dedica personale una copia del suo libro e la faceva così diventare oggetto di culto, vendibile all’asta a un prezzo ben maggiore di quello di copertina.

Immersioni: una rubrica di approfondimento per andare in profondità su quello che accade ogni giorno..

Se però parliamo di tokenizzare opere di Giotto, Michelangelo, Raffaello, Bernini, che sono da secoli patrimonio culturale dell’umanità, libere da copyright e riproducibili liberamente da tutti, allora davvero credo sia necessario contare fino a dieci, fare un bel respiro e schiarirsi un attimo le idee. In quel caso non è Bernini a mettere la sua firma virtuale sull’esemplare digitale della sua opera per renderlo unico; ma è il museo che detiene l’opera di Bernini a farlo. Chi acquisisce quel token non può davvero bullarsi di avere qualcosa di unico e prezioso con la dedica di Bernini; ma semplicemente di avere una copia digitale dell’opera che ha il sacro crisma del museo. Quale sarebbe il valore intrinseco di ciò? Come si può pensare che su questo fenomeno si crei un mercato fiorente e solido (e non semplicemente una bolla)? È davvero un modo opportuno per raccogliere fondi per sostenere la conservazione dei nostri beni culturali? E questi sono solo alcuni dei quesiti che dovremmo porci sul tema.

Secondo il punto di vista di uno che come me si occupa da anni di diritto d’autore e di accesso aperto alla cultura, ci sono (almeno) 3 motivi per cui creare NFT (Non-Fungible Token) dei grandi capolavori della storia dell’arte non è una grande idea. Li riassumo qui di seguito e li ho spiegati anche in un video, presente in fondo a questa pagina.

1) Sono opere in pubblico dominio, che quindi sono entrate a far parte del patrimonio culturale dell’umanità

In altre parole sono di tutti, ma anche di nessuno.

Si noti tra l’altro che, se parliamo di opere risalenti al prima del 1800, è probabile che non abbiano mai goduto di un copyright.

Raffaello, Michelangelo, Bernini il copyright sulle loro opere non l’hanno mai avuto, perché all’epoca il copyright non esisteva e neppure se ne percepiva il bisogno.

Leggi anche: Guardare e non scattare.

Creare un NFT di un’opera, anche se diffuso gratuitamente, è sempre una forma di controllo delle riproduzioni e quindi rappresenta sempre una forma di riprivatizzazione di queste opere. Certo, l’NFT riguarda solo una singola copia digitale; ma comunque c’è un soggetto che attraverso il sistema degli smart contract e della blockchain tiene traccia (e quindi controlla) degli utilizzi di quella copia.

2) Visto che non c’è copyright, queste iniziative di tokenizzazione trovano il loro fondamento giuridico solo e unicamente nell’articolo 108 del Codice dei beni culturali

In base a questa norma, è riservato ai musei e agli altri enti pubblici che custodiscono beni culturali il diritto di chiedere un compenso sulle riproduzioni a scopo commerciale delle opere. Per comprendere bene la questione è utile leggere la norma stessa, che purtroppo è lunga e di comprensione non immediata. In rete si può leggere a riguardo un mio breve commento critico.

Questa norma, già molto criticata, dal 2019 risulta anche in palese contrasto con l’articolo 14 della nuova direttiva copyright (direttiva 790/2019), che invece stabilisce che il materiale derivante da un atto di riproduzione di un’opera dell’arte visiva (cioè dipinti, sculture, fotografie, disegni) non deve essere soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi. In altre parole quando un dipinto o una scultura diventa di pubblico dominio, anche le sue riproduzioni devono esserlo, senza la possibilità di aggiungere ulteriori strati di diritti e di vincoli.

Il legislatore italiano ha incomprensibilmente recepito la direttiva lo scorso novembre senza modificare l’articolo 108, lasciando il campo a ricorsi per l’incompatibilità tra il dettato normativo nazionale e quello europeo. Ho parlarto di questo aspetto in una mia videolezione: Lo pseudocopyright sui beni culturali: un commento agli articoli 107 e 108 del Codice Beni Culturali.

Sia chiaro che, se dovesse cadere l’articolo 108 del Codice dei beni culturali, verrebbe meno tutto il fondamento giuridico di queste iniziative perché chiunque potrebbe fare gli NFT di quelle opere e metterli in commercio. La differenza sarebbe solo nell’avere una sorta di timbro virtuale con scritto Gallerie Uffizi.

3) Quasi sempre queste iniziative di realizzazione e messa in commercio degli NFT non vengono realizzate direttamente dai musei

Né dai musei né dagli altri enti pubblici, ma da aziende private (spesso anche estere) che da un lato trattengono un’alta percentuale di commissione (anche il 50 percento, come nel caso degli Uffizi), dall’altro lato diventano poi i soggetti che hanno l’effettivo controllo della diffusione degli NFT.

Emblematico il caso delle Gallerie Uffizi, che già lo scorso anno annunciavano questo accordo (la società Cinello pare abbia incassato per tutta l’operazione 240 mila euro, di cui però – tolte tasse e spese – al museo ne sono arrivati solo 70 mila). Proprio su questo caso verteva il servizio delle Iene citato all’inizio.

Diventa quindi una questione sia giuridica sia economica, che merita la dovuta attenzione. Giuridica perché ci si chiede in quali termini un museo pubblico possa affidare a un’azienda privata certe attività senza la sufficiente trasparenza sulla scelta del soggetto e sulla stipula del contratto (ascoltando il servizio televisivo sembra già che ci siano attriti tra le parti sull’interpretazione del contratto). Economica perché si pone il dubbio di quale sia il prezzo equo a cui mettere in commercio certe riproduzioni e quale sia la percentuale di commissione che una pubblica amministrazione può ritenere accettabile senza che si verifichi un danno erariale (secondo voci autorevoli, lasciare all’azienda privata il 50 percento degli introiti netti è davvero eccessivo).

Ad ogni modo, si conferma quanto sostenuto nel punto 1: si tratta di una forma di riprivatizzazione di opere di pubblico dominio, che ha poco senso.

Lo specifico caso degli Uffizi e dei Digital Art Work di Cinello

Visto l’interesse mediatico suscitato, è forse il caso di soffermarci più specificamente sul citato caso degli Uffizi e degli NFT realizzati dalla società Cinello.

In sintesi, gli Uffizi hanno concesso alla Cinello (pare in via esclusiva per cinque anni, dal 2016 al 2021) il diritto di realizzare e commercializzare esemplari digitali tokenizzati di alcuni capolavori conservati nell’eccelso museo fiorentino. Il contenuto di questo contratto e le procedure attuate per l’affidamento sarebbero tutti da indagare; e il Ministero della Cultura ha infatti ben pensato di mettere un freno e approfondire.

Cinello non fa dei semplici NFT ma delle riproduzioni realistiche, in scala 1:1, fatte con schermi ad altissima risoluzione e cornici artigianali identiche a quelle degli originali. Chi compra questi DAW (digital art work) quindi, oltre a comprare il classico file unico e certificato rappresentato dall’NFT, compra anche un oggetto materiale che può appendersi in casa. Belli, molto realistici, e soprattutto marchiati con il sacro crisma del museo. Ma sempre di copie stiamo parlando. Copie molto costose, tra l’altro.

Sfogliando il sito della società troviamo molti classici in vendita. E scopriamo che la tecnologia con cui realizzano le loro riproduzioni è protetta da un brevetto internazionale e che si tratta di edizioni limitate. Forse sarò un po’ all’antica, ma sentire la parola brevetto e l’espressione edizione limitata associate a riproduzioni digitali di opere di pubblico dominio è già di per sé una cosa che fa venire un po’ di labirintite.

E visti i prezzi, continuo a chiedermi chi sia così pazzo da acquistare quella roba. Ma io sono un giurista; e sulle questioni psichiatriche lascio parlare i medici.

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribution – Share Alike 4.0 International.

Immagine di apertura di adrianna geo on Unsplash.

L'autore

  • Simone Aliprandi
    Simone Aliprandi è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto d’autore e più in generale del diritto dell’ICT. Responsabile del progetto copyleft-italia.it, è membro del network Array e collabora come docente con alcuni istituti universitari. Ha pubblicato articoli e libri sul mondo delle tecnologie open e della cultura libera, rilasciando tutte le sue opere con licenze di tipo copyleft.

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