Sono in molti, infatti, a chiedersi a cosa servano le missioni spaziali, quali vantaggi abbiamo dato all’uomo la faticosissima (e costosa) stagione del Programma Apollo, i lanci delle Soyutz che portavano avanti e indietro gli “abitanti” stazione orbitante sovietica Mir, l’ambizioso progetto della costruzione dell’International Space Station, a cui tutto il mondo partecipa.
La risposta è intorno a noi: giacche a vento, padelle, telefonini, pace maker e, soprattutto i computer: sono decine gli oggetti e le tecnologie d’uso quotidiano che discendono direttamente dalle missioni spaziali. Studi fatti per vincere la forza di gravità, per proteggere gli astronauti e controlla a distanza il loro stato di salute, materiali costruiti per rendere leggere e sicure le navicelle. Inoltre, dalla fine degli anni Ottanta, sia sulla Mir che sullo SpaceLab (l’antesignano della attuale Stazione spaziale) le varie agenzie spaziali hanno ammesso a bordo anche scienziati non militari che hanno portato in orbita esperimenti altrimenti impossibili sulla Terra. Infatti, quaggiù tutto è sottoposto alle leggi di gravità, mentre in orbita il comportamento di materiali ed elementi chimici è svincolato dalle leggi di Newton. Dunque è possibile costruire materiali innovativi o realizzare molecole per usi farmaceutici altrimenti impossibili in un normale laboratorio.
Da non trascurare poi la “lezione” imparata da tutto il mondo accademico e scientifico coinvolto nel Programma Apollo: dovendo far lavorare insieme, gomito a gomito, centinaia di ricercatori di discipline diversissime fra loro (biologi con elettronici, esperti di chimica dei metalli con teorici di forze gravitazionali….) è in quegli anni che ci si è resi conto di quanto il progresso scientifico potesse avvantaggiarsi dalla multidisciplinarietà dei gruppi di lavoro. E certe strutture organizzative sono state poi replicate con successo nei grandi gruppi di ricerca che oggi indagano la genetica o la fisica delle particelle.
Questa missione del Columbia era una delle più lunghe (16 giorni) proprio perché gli astronauti dovevano realizzare oltre 90 esperimenti scientifici. Il loro laboratorio volante era stato allestito nella stiva del Columbia, all’interno del modulo spaziale Spacehab (la cui struttura e i sistemi termici erano stati costruiti presso gli stabilimenti torinesi dell’Alenia Spazio), installato in configurazione “doppia” (Research double module, Modulo doppio per la ricerca) per accogliere le 4 tonnellate di equipaggiamenti scientifici necessarie, per un valore complessivo di circa 80 milioni di euro. Nove esperimenti erano sotto l’egida dell’Agenzia spaziale italiana
Dunque, oggi la corsa allo spazio non ha più (o, meglio, non ha “solo” più) una finalità militare o di “egemonia” come era stato il Programma Apollo, lanciato da Kennedy anche per riaffermare la supremazia americana nei confronti dei successi spaziali sovietici degli anni Cinquanta. Oggi si va nello spazio per fare ricerca scientifica che, nel giro di pochi anni, sicuramente ricadrà a vantaggio di tutti. L’esempio più clamoroso riguarda i computer: quando venne progettato il modulo lunare Apollo, per assistere i piloti venne chiesto alla nascente industria informatica di studiare un computer apposito. E vennero date le specifiche: il computer di bordo delle missioni Apollo doveva pesare una decina di chili, essere non più grande di un televisore, resistere agli scossoni e consumare l’energia di un paio di lampadine. I computer in uso all’inizio degli anni Sessanta occupavano un intero salone (se non una palestra) era alimentato da un’apposita centralina elettrica e necessitavano di una squadra di tecnici costantemente intenta a cambiare qualche pezzo.
Fu uno sforzo incredibile ma, nel giro di 5-6 anni, gli obiettivi furono raggiunti. In qual momento nacque la miniaturizzazione delle componenti elettroniche nonché l’era dei personal computer. Ancora sul versante delle telecomunicazioni sono figli della ricerca spaziale tutti i sistemi di trasmissione via satellite (oggi molto preziosi anche per la salvaguardia dell’ambiente), così come la telemetria, il controllo a distanza delle apparecchiature automatiche, lo sviluppo dei sensori necessari al funzionamento dei robot.
Dalle diverse avventure spaziali grandi vantaggi sono stati ottenuti anche sul versante della tecnologia medica. Da quando sono iniziati i primi voli umani (sovietici prima e americani poi) ci si è innanzitutto preoccupati di tenere sotto controllo lo stato di salute degli astronauti, sottoposti, specie in fase di lancio e in fase di atterraggio, a enormi sollecitazioni. Nasce in quegli anni il monitoraggio cardiaco e altri sensori usati in medicina, primo fra tutti il termometro a infrarossi: inserito nel canale auricolare, questo termometro misura in due secondi, e con precisione ottima, la temperatura del corpo. Le termografie multicolori (oggi usate per controllare, attraverso minime differenze di temperatura, le aree infiammate, le sorgenti di dolore e problemi di circolazione) inizialmente erano state inventate per tenere sotto controllo le temperature dei motori e degli altri meccanismi delle navicelle spaziali. Allo stesso modo la tecnologia degli ultrasuoni, inizialmente studiata per controllare lo stato dei materiali delle astronavi, oggi è ampliamente impiegate in tutti i campi dell’industria (dalle leghe metalliche agli stampaggi plastici) e in medicina: serve, per esempio, per controllare l’avvenuta guarigione di cicatrici e ferite profonde. Perfino il pacemaker deriva dai sistemi di controllo delle comunicazioni di bordo.
Su un versante più “quotidiano” derivano dalla ricerca spaziale il teflon delle padelle antiaderenti, il velcro (impiegato per la chiusura delle tasche delle tute degli astronauti), i tessuti multistrato delle giacche da sci, i tessuti ignifughi usati per la sicurezza in cinema e teatri o per l’equipaggiamento dei pompieri e dei piloti della Formula Uno. E ancora: i ponti di mezzo mondo (e pure la Statua della Libertà) sono ricoperti con vernici anti-corrosione studiate per le strutture del Johnson Space Center, la sottilissima pellicola che rende “antigraffio” le lenti degli occhiali nasce per gli oblò degli shuttle, molti sistemi di conservazione e confezionamento dei cibi dei supermercati all’origine era impiegato per la “cucina” delle navicelle.