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Pensando alle presidenziali, declina l’high-tech USA nel mondo

19 Marzo 2004

Pensando alle presidenziali, declina l’high-tech USA nel mondo

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Outsourcing dilagante e cattiva gestione dei fondi per la ricerca, mentre l'industria sembra ora corteggiare i repubblicani

Il boom dell’outsourcing sta colpendo duro il mondo high-tech a stelle e strisce. Notizia non certo nuova, ma che si va facendo preoccupante. I bassi salari e il rampante talento umano del subcontinente Indiano, ad esempio, continua ad attirare grossi clienti non solo dal Nord-America ma anche dall’Europa, inclusi nomi tipo Citibank, Deutsche Leasing, Alliance Capital, Air Canada e Princeton University. Entro la fine dell’anno, prevede il Gartner Group, almeno 500.000 posti di lavoro verranno trasferiti altrove, soprattutto nei paesi asiatici. Dove, secondo altre fonti, non passa una settimana senza che una qualche società tecnologica non apra un nuovo centro di ricerca e sviluppo.

Il trend è in prima pagina, e perfino la NPR (National Public Radio) va dedicando all’argomento una serie di trasmissioni quotidiane in cui analizza i vari aspetti del fenomeno. Incluse interviste con gli operatori di ‘call center’ internazionali dislocati in quel di Bombay, India (ora rinominata Mumbai) e le dimostrazioni di piazza della crescente massa di licenziati e senza lavoro statunitensi, come accaduto recentemente nella capitale Washington in occasione di un convegno dedicato proprio all’outsourcing. Ma se è vero che quest’ultimo va ora colpendo anche l’occupazione (e relativi stipendi) di alto livello, dagli ingegneri aeronautici ai dirigenti informatici, la tendenza nasconde una paura ben più grande: il tradizionale dominio USA nell’high-tech mondiale è in serio declino.

Dopo circa mezzo secolo di indiscusso dominio, i colossi high-tech USA devono far fronte a una sofisticata concorrenza di livello globale. È il caso di colossi quali IBM, Intel, Hewlett-Packard, Texas Instruments, Microsoft, General Electric — frutto della dinamica cultura dell’innovazione e dei portentosi investimenti di questi decenni. Oggi invece i diretti rivali sono alle calcagna, e anche più avanti, pressoché in ogni settore: i paesi scandinavi per la telefonia mobile, il Giappone per robotica e semiconduttori, il consorzio europeo Airbus contro Boeing, e via di seguito. Al contrario degli USA, nazioni come Cina, Singapore e Taiwan offrono ampi sgravi fiscali e sovvenzioni alle start-up in loco: “con simili sostegni governativi — spiega Curt Carlson, CEO dello Stanford Research Institute — è un mondo completamente diverso… così portano innovazione di alto valore nei propri paesi.” Anche perché di pari passo gli USA non sono ugualmente aggressivi nel fornire supporti economici, soprattutto nel caso della piccola e media imprenditoria.

Ancor più colpevoli sembrano essere le recenti priorità di Washington: ovviamente in testa alla classifica il Dipartimento della Difesa, con annessi budget da record per la ricerca tecnico-scientifica. Ma in generale gli investimenti restano comunque inferiori a quelli pro capita avviati da altri paesi in anni recenti. Aggiunta importante, chiarisce la American Association for the Advancement of Science: tali budget vengono in realtà destinati allo sviluppo di armi di ogni tipo e fattura, ben più e prima che a vere e proprie attività di ricerca. E quest’ultima, al di fuori della Difesa, rimane generalmente concentrata in campi quali biotecnologia e info-tech. Alcuni esperti sottolineano come vangano tralasciati discipline assai promettenti per il futuro economico, quali chimica e fisica. Manca la diversificazione, e quel che è peggio, riporta l’agenzia di consulenze Tech Strategy Partners, perfino le grosse software-house USA assegnano ai progetti innovativi meno del 30 per cento dell’intero budget per la ricerca. Anche se per altri il trend dell’outsourcing potrebbe invece sfociare in risultati dirompenti: delegati altrove i servizi, a costi comunque inferiori, un numero maggiore di personale qualificato potrebbe focalizzarsi sul lato creativo e sulla vera innovazione, spostando così nuovamente l’ago della bilancia verso il Nord-America.

In attesa di capire se e quali scenari globali prenderanno effettivamente corpo, l’high-tech USA deve intanto fare i conti con le presidenziali di novembre. E sembra che stavolta voglia favorire i repubblicani, almeno a livello di contributi economici, che nel 2000 avevano invece preferito per lo più le casse democratiche. A cominciare da Yahoo, che ha già versato al partito di George Bush il 55 per cento dello stanziamento complessivo di oltre 8 milioni di dollari previsto per tali contributi (nel 2000 era stato del 47 per cento). Mentre EBay ha contribuito il 64 per cento dei fondi per l’azione politica, in salita rispetto al 56 per cento di quattro anni fa. Ancora, qualche settimana fa Carly Fiorina, boss di Hewlett-Packard, ha avuto un incontro a quattr’occhi con il Presidente Bush, a riprova del fatto che le preferenze verso i GOP sarebbero motivate dagli atteggiamenti pro-business dell’attuale amministrazione. La quale non a caso si oppone con decisione all’introduzione di possibili Internet Tax, che alcuni stati vedono invece con favore per rimpinguare i forzieri all’asciutto. E poco favore raccolgono i possibili incrementi al regime fiscale proposti da Kerry. Senza dimenticare che nel complesso la grande industria tende a sovvenzionare il partito al potere — e oltre alla Casa Bianca, i repubblicani controllano entrambi i rami del Congresso.

Va infine aggiunto che manca ancora parecchio tempo al due novembre, e la tendenza potrebbe ribaltarsi. Anzi, il settore high-tech rimane tuttora “alla finestra”, insiste Larry Noble, direttore del bi-partisan Center for Responsive Politics che va analizzando tale tendenza. Anche perché si tratta comunque di “un attore politico in crescita” il cui supporto è tutto da conquistare, anche e soprattutto in vista delle policy governative che verranno prese su temi bollenti quali, appunto, l’outsourcing. Nel frattempo qualcun altro continua a preferire i democratici. È il caso di Eric Schmidt, CEO di Google, che ha contributo alla campagna di John Kerry con 2.000 dollari.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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