Ci stiamo apprestando a compiere una spettacolare ed emozionante ascesa alla vetta dell’Everest. Siamo al campo base, ci vestiamo di tutto punto, prepariamo lo zaino riempiendolo con tutto ciò che potrebbe tornarci utile e, d’un tratto, ci accorgiamo che non sappiamo da dove cominciare, non conosciamo gli oggetti che abbiamo davanti e nessuno funziona come dovrebbe
Questa storia assurda rispecchia esattamente la situazione delle odierne interfacce uomo-macchina, quasi senza eccezioni. I computer e i telefoni cellulari incorporano i chip e la componentistica più all’avanguardia; i sistemi operativi sono una festa per gli occhi, con grandiosi sfondi a colori e trompe l’oeil tridimensionali. Clicchiamo su un bottone grafico e, per magia, quello riproduce con assoluto realismo il movimento di un pulsante reale; contemporaneamente, ecco una riproduzione stereo digitale dello scatto di un interruttore, quindi un vivace glissando di arpa, che ammalia il nostro udito proprio mentre una finestra si apre dinanzi ai nostri occhi.
Ma appena cerchiamo di fare qualcosa, ecco che subito sbattiamo contro una selva di ostacoli: il sistema non si comporta come ci aspettiamo. Fra le migliaia di comandi disponibili, non riusciamo
a trovare quello che ci serve. Semplici operazioni di routine richiedono una quantità smodata di tempo, con la nuova versione migliorata del sistema operativo, il programma acquistato l’anno scorso non funziona più e siamo costretti a comprarne una nuova versione. E, nemmeno a dirlo, il tutto si pianta regolarmente.
Una buona interfaccia poggia su alcuni principi di progettazione che purtroppo non sono molto noti. E perché mai si dovrebbero studiare questi principi?
Dopotutto, il modo in cui un’interfaccia debba presentarsi e funzionare sembra materia ormai consolidata: le interfacce sono state sviluppate incrementalmente nel corso di almeno vent’anni, le linee-guida pubblicate dai principali produttori software assicurano la conformità di ogni futuro software, gli strumenti di sviluppo ci permettono di assemblare con rapidità interfacce che si presentano in modo del tutto analogo a quelle dei programmi già esistenti…
Riflettiamo invece su ciò che queste interfacce non riescono a fare per noi: quando vogliamo annotare un’idea, dovremmo poter andare al computer, o all’infodomestico preferito, e metterci semplicemente
a scrivere. Niente tempo di avvio, niente lancio del word processor, niente nomi di file, niente sistema operativo. Per aggiungere al nostro sistema due o tre semplici funzioni, non dovremmo essere costretti a imparare un’intera nuova applicazione.
Purtroppo, la progettazione di interfacce ha preso una strada sbagliata, che ci ha portato a livelli di difficoltà privi di qualsiasi giustificazione logica o tecnologica.
Milioni di noi hanno una relazione di odio-amore con le tecnologie dell’informazione: non possiamo vivere senza di loro ma, allo stesso tempo, troviamo molto difficile conviverci. Il problema di rendere agevole la tecnologia ha delle soluzioni, ma in questo momento non possiamo comprarle da nessuna parte. Le interfacce tradizionali, con la scrivania e le applicazioni, sono una parte del problema.
Eppure ci devono essere delle alternative, in fin dei conti, i computer non sono come il clima: possiamo fare qualcosa per migliorarli.
In fondo, la qualità di qualsiasi interfaccia è determinata da quella dell’interazione fra un essere umano e un apparecchio. Se un sistema non è facile e gradevole quando interagisce uno-a-uno con un utente umano, è la sua qualità complessiva a venirne lesa, indipendentemente dalla sua bontà sotto altri aspetti.
Jef Raskin
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