Il sito del New York Times, uno dei più importanti quotidiani al mondo, è ufficialmente passato alla versione a pagamento. Un cambiamento molto forte, per l’importanza del sito, e per le conseguenze che potrebbe avere sui modelli di business futuri dell’intero giornalismo, non solo online, in Occidente. I primi a passare alla versione a pagamento sono i lettori canadesi, ma entro la fine del mese tutto il mondo sarà soggetto allo stesso tipo di regime. Finora sapevamo che gli utenti erano disposti a pagare solo per servizi giornalistici settoriali e ad alto valore aggiunto: banche dati, quotidiani economici con grandi moli di dati finanziari come il Financial Times. Il New York Times è un giornale generalista e la mossa, annunciata da più di un anno e dunque lungamente ponderata, incuriosisce un po’ tutti.
Il tariffario
A suscitare un surplus di curiosità è anche lo specifico schema di pagamento adottato, ben diverso dalle versioni tutto-o-niente cui si era abituati. Sarà infatti garantita a tutti la lettura di 20 articoli al mese (non pagine: anche in caso di slideshow o di articoli su più pagine, questi conteranno come uno), e la home rimarrà sempre visibile a tutti, assieme alle home di sezione, alle home dei blog e agli annunci, nonché tutte le top news fruite dalle applicazioni mobili. L’abbonamento avrà diverse formule. Per 15 dollari si potrà liberamente leggere il sito per quattro settimane, sia via web che via applicazione mobile. Tranne nel caso dell’iPad: per usare l’applicazione sul tablet della mela (e accedere pure via web liberamente al sito) si dovranno pagare 20 dollari. In sostanza, viene alzato un chiaro disincentivo all’uso della tavoletta Apple. Anche perché se uno vuole leggere liberamente il suo sito sia con l’app del proprio smartphone che con l’app dell’iPad, dovrà cumulare i due abbonamenti e pagare ben 35 dollari.
Felix Salmon nota che, se si vive nell’area di New York, addirittura conviene abbonarsi alla versione domenicale cartacea (che è ben diversa dalla versione domenicale dei nostri quotidiani: lì è come comprare una bibbia pesantissima composta da fascicoli su fascicoli divisi nei più disparati argomenti, un modello di quotidiano domenicale che da noi non è mai esistito) e buttarla: perché il costo di quell’abbonamento sarebbe di 19,60 dollari, ma includerebbe anche l’accesso illimitato, per le canoniche quattro settimane, via web e via tablet. Come largamente annunciato, rimane tuttavia attiva la possibilità di accedere agli articoli, anche se superano i 20 mensili, via referrer “autorizzati”. In pratica, le pagine linkate da Facebook e da Twitter potranno sempre essere viste da chi segue quei link (update: pare che questo riguardi anche i link dai blog in genere, il che apre parecchi “buchi” nel modello di pagamento…). Conteranno sempre per far salire il contatore dei 20 articoli mensili, ma non faranno mai scattare il blocco. Se si segue un link a un articolo del New York Times da Google, invece, si avrà sempre la possibilità, di leggerlo, ma fino a un limite di 5 articoli al giorno. Il prezzo annuale dell’abbonamento annuale è di 195 dollari.
I conti in tasca
Ha senso questa strategia? Dal punto di vista commerciale, c’è chi ne dubita. Di fatto, attualmente il New York Times ha revenue pubblicitarie dal digitale per oltre 300 milioni di dollari. È lecito attendersi che il numero delle visite, per effetto di questo paywall, diminuirà, e con esso queste revenue. Si tratta di capire se il calo di queste entrate sarà compensato dai guadagni dagli abbonamenti. Il già citato Salmon prova a fare qualche stima e ottimisticamente conclude che all’anno questo sistema potrà far guadagnare 24 milioni di dollari. Poiché il suo sviluppo è già costato 40 milioni di dollari, per due anni non ci sarà praticamente guadagno. Dopo di che diventerà marginale, soprattutto perché è ragionevole pensare che la perdita sul budget pubblicitario sarà ben maggiore. Certo, non sembra un sistema costruito per portare grandi vantaggi economici: magari le stime potranno essere sbagliate, ma difficilmente possiamo immaginare una grande massa di paganti.
Anzi: qualcuno nota che la strategia commerciale è in realtà quella di far pagare solo i clienti migliori. I “core-reader”, gli affezionati, una evidente minoranza, rispetto ai lettori “mordi e fuggi”, che magari arrivano solo da link su Facebook e Twitter e non sono affezionati. E in tal caso la scommessa è evidentemente sul mancato abbassamento degli introiti pubblicitari. In pratica, a pagare saranno solo quelli che hanno il difetto di essere molto affezionati al giornale, di essere utenza professionale o di fascia alta. Per di più, diventeranno anche migliori target commerciali: facile cioè vendere a prezzi più alti le reclame che riguardano un gruppo piccolo ma molto caratterizzato di lettori.
Non tutti i pagamenti sono uguali
Che però quello che accadrà non sia facilmente prevedibile lo dimostrano due storie agli antipodi. Quella del Times di Londra, che obbliga a pagare per leggere anche solo un articolo, e che ha visto, assieme al gemello Sunday Times, i visitatori unici mensili passare da 20 milioni a 100.000. E quello dell’americano Augusta Chronicle, un giornale molto più piccolo che, in maniera più simile al New York Times, ha proposto un modello di pagamento abbastanza tollerante, lasciando 25 articoli premium al mese gratuiti, più un’infinità di altro materiale liberamente consultabile, con aggiornamenti che in home page si sono fortemente intensificati, stimolando i lettori alla visita, e fissando una tariffa di 6,95 dollari al mese per il solo digitale e di 2,95 se si è già abbonati anche al cartaceo. Ebbene, dopo tre mesi le visite al sito sono aumentate del 5%. È presto per dire come andrà. Pare che molto del valore del modello stia nell’ampia selezione di contenuti gratuiti consultabili comunque, e in un prezzo basso. Il numero degli abbonati non è noto, ma non è altissimo: fra i due e gli otto abbonamenti giornalieri. Se si mantenesse un andamento costante, all’anno potrebbe fruttare fra i 43.000 e i 173.000 dollari, stima Lsdi.it. Abbastanza per una redazione da una a quattro persone.
Conclusioni non ne possiamo trarre. Appare certo però che il successo del modello a pagamento dipende da un mix di fattori, che probabilmente richiederà tempo per essere messo a punto. Se per un giornale generalista probabilmente chiudere le pagine alla possibilità di essere linkate da motori e social network (il cosiddetto “open web”, da cui il New York Times dichiara e dimostra di non voler uscire) non pare mai una grande soluzione, il mix può essere fatto fra un tetto di pagine free al mese (che consente di non perdere troppi lettori, dato che la maggior parte non riesce nemmeno ad arrivare a consumarle tutte e a essere interessata quindi alla possibilità di abbonarsi), una serie di pagine comunque gratuite di consultazione (cosa che sia l’Agusta che il New York Times stanno proponendo) e un corretto prezzo per l’abbonamento.
Chi vince?
E qui il New York Times forse qualcosa dovrà correggere, anche per evitare di suscitare le proteste possibili dei lettori più fedeli, gli unici a sostenere costi aggiuntivi per la loro “passione”. Il rapporto fra lettori e giornali negli Stati Uniti sembra abbastanza diverso da quello che c’è con i lettori italiani e i propri quotidiani, troppo spesso poco indipendenti e, anzi, molto legati alla politica. Ma proprio per questo, se funzionerà il modello per cui a pagare devono essere i più appassionati, quali giornali credete abbiano più chance di ottenere entrate dai propri fan: un giornale d’equilibri come il Corriere o la Stampa, o un giornale di “nicchia orientata” come Libero o il Fatto Quotidiano?