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New tech/old mind

24 Giugno 2003

New tech/old mind

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Bandire le nuove tecnologie dagli esami scolastici o piuttosto cercare di cambiare gli esami stessi, insieme con il cambiamento della società?

A volte le idee corrono avanti e non trovano nella realtà nessun punto di appoggio, nessun riscontro pratico. Restano così teorie, utopie, sogni, fantasie, modelli. Più spesso però la realtà corre con le sue trasformazioni sociali, ambientali, tecnologiche, e le idee, la mentalità delle persone restano indietro. E allora il sonno della ragione genera mostri, come scriveva Goya sotto una sua celebre incisione.

La notizia

Il ministero della Pubblica Istruzione ha proibito, negli esami 2003, l’uso da parte degli studenti di telefoni cellulari di ogni tipo, computer palmari, computer portatili, collegamenti a Internet. Si presume che il provvedimento sia servito a impedire che gli studenti pigri o impreparati potessero farsi trasmettere i compiti di esame da compiacenti complici esterni e fossero costretti ad affrontare la prova con le sole proprie forze. Suppongo che il provvedimento si iscriva in quei propositi di efficienza che animano le riforme morattiane, anche se va contro l’informatizzazione che rientrava nei principi guida della riforma scolastica italiana, e contro il normale progresso scientifico e tecnologico.

I media

Televisioni, radio e giornali hanno riportato la notizia come informazione. Non ci sono state discussioni, approfondimenti critici, talk show o, almeno, io non ho avuto modo di imbattermi in alcuna riflessione critica su un provvedimento che sembra assolutamente logico e indiscutibile. Tuttavia, quando ho assistito alla notizia data dai telegiornali con tono di malcelata soddisfazione (adesso basta con i trucchi e gli imbrogli, ognuno deve cavarsela solo con le proprie forze e vinca il migliore), ho avuto un brivido nella schiena.

Ma come, in un mondo che cambia velocemente, si pensa di proibire tutte le nuove tecnologie? Con la speranza di tornare al buon tempo antico, quando la soluzione del problema si scriveva sui polsini della camicia? O veniva lanciata dalle finestre dentro un panino? O addirittura cantata sotto le finestre della sede di esame da un cantastorie con l’organino di Barberia?

È ora di cambiare?

Se mi trovo in una situazione in cui devo vietarmi l’uso di tutte le risorse più recenti ed efficienti, non dovrebbe venirmi il sospetto che forse è opportuno cambiare quello che sto facendo? È vero che in alcuni giochi o in alcuni sport si fa uso di strumenti di altri tempi, o ci si impedisce di fare certe cose. Nel calcio non si può toccare la palla con le mani, nel ciclismo si va in bicicletta e non ci si può mettere un motore, a mosca cieca ci si deve bendare, in montagna è meglio andare a piedi che con un fuoristrada.

Tuttavia bisogna chiedersi: la scuola – e quindi gli esami – è un gioco, o è un ambiente in cui ci si prepara ad affrontare la vita? Se gli esami mi impongono di fare a meno di tutte le nuove tecnologie, non sarebbe meglio cambiare gli esami? Bene. Ma se volessimo cambiare, che cosa e come cambiare?

Scuola e società

La scuola, dall’inizio fino all’università, vive in un suo mondo, piuttosto impermeabile al resto della società. È un mondo fatto di concorsi, di graduatorie, di provveditorati, di programmi da svolgere, di esami, di editori, di libri di testo, di percorsi curricolari, di piani di offerta formativa (che, come un palloncino bucato da uno spillo, si chiamano POF).

È un mondo protetto, che vive con suoi ritmi, ed è sempre un po’ diffidente di fronte a tutto ciò che sta fuori. Quando ero giovane era diffidente di fronte al cinema e ai fumetti, anni fa era diffidente di fronte alle minicalcolatrici e al video, ora è diffidente di fronte ai videogame e ai telefonini.

La società invece si muove velocemente, si trasforma in modo spesso selvaggio e imprevedibile, con cambiamenti traumatici o con movimenti impercettibili che dopo un po’ generano grandi ondate.

La società è profondamente intrisa di nuove tecnologie. Oggi non siamo più isolati, siamo nodi di reti più o meno complesse. Chip, controlli numerici, navigatori satellitari, computer sono ovunque intorno a noi, anche nelle attività più tradizionali, o in quelle rivolte all’antico come l’archeologia, che addirittura fa scavi virtuali prima di aprire cantieri reali.

Meglio soli o bene accompagnati?

Se la scuola di ieri doveva preparare un intellettuale capace di lavorare in solitudine (ma è proprio vero che ieri si lavorava ognuno per conto suo?), oggi è inconcepibile lavorare da soli, produrre risultati traendoli solo da ciò che si sa e si ricorda. Oggi si opera sempre più come nodi di reti più o meno ampie e intricate.

Quindi la scuola non dovrebbe incitare a fare le cose da soli, ma insegnare a farle in gruppo, e a ricorrere a tutte le risorse che abbiamo a disposizione: persone più esperte, libri, biblioteche, ipermedia su cd rom, internet.

Nel lavoro reale, quando non so fare una cosa, mi rivolgo ad un collega o ad un fornitore che la sa fare. Il medico si fa fare le analisi da un altro medico. Io faccio il regista di videocomunicazione, per cui preparo uno storyboard, ma poi chiamo un cameraman per le riprese, un montatore per il montaggio, un animatore per le animazioni grafiche. Anche quando scrivo la sceneggiatura, se mi mancano informazioni le chiedo al committente, o me le procuro affidandone la ricerca ad un collaboratore.

Perché allora agli esami gli studenti devono fare qualcosa da soli, senza farsi aiutare dagli altri?

Se la scuola serve (anche) a preparare alla vita reale, perché non si insegna a farsi aiutare dagli altri, con metodo, con lo scopo di arrivare alla migliore definizione e soluzione di un problema?

Perché invece di far fare dei compiti, non si pongono dei problemi, e si invita lo studente ad analizzarli, a definirli bene, a trovare alcune soluzioni possibili (non LA soluzione), a scegliere una soluzione, ad applicarla, a vedere se funziona?

Perché continuiamo a fare gli esami materia per materia? In un progetto reale mi devo occupare di molte cose insieme: definizione degli obiettivi, pianificazione dei tempi, valutazione dei costi, scelta delle tecnologie… Non posso pensare solo alle tecnologie se non tengo conto dei costi.

Allora anche la prova di esame potrebbe essere un progetto, dove si deve analizzare il comportamento di un soggetto politico (storia), ambientarlo in una località (geografia), valutare le quantità e le ipotesi alternative (matematica), la composizione di alcune sostanze (chimica), e presentare il tutto in una o più relazioni (scrittura). Lo studente darebbe prova di sapersi organizzare, di saper ottenere quello che gli serve, di saper risolvere i problemi. Dovrebbe conoscere le strutture portanti delle varie discipline, altrimenti non saprebbe neanche dove cercare e come farsi aiutare.

Insegnare a farsi aiutare significa insegnare la leadership, il management, la cooperazione, il lavoro di gruppo, la capacità di delegare, il lavoro per obiettivi, la capacità di organizzare, di affidare compiti ai propri collaboratori e di pretenderne lo svolgimento entro tempi stabiliti. E una prova di esame che verificasse tutto ciò, sarebbe necessariamente una prova aperta a qualsiasi combinazione e a tutte le tecnologie possibili.

Si tratterebbe di qualcosa di moderno, perfettamente in linea con quanto accade nella società.

Ma con una impostazione del genere non ci sarebbe bisogno neanche dell’esame. Se lo studente entro la fine dell’anno ha raggiunto gli obiettivi previsti dal progetto, non deve fare niente altro.

L’apprendimento significativo

Quello che dico è una mia fantasia campata in aria e impossibile da applicare nelle scuole reali?

Non credo, perché a mia volta non mi baso su idee mie, ma di altri. Parto dalla teoria di David Ausubel, che risale al 1962, e fin dal 1964 è stata ripresa e sviluppata da Joseph Novak (cfr. “L’apprendimento Significativo”, Erickson, Trento, 2001). Ausubel distingue fra apprendimento mnemonico, dove si imparano nozioni senza comprenderne bene il significato e le relazioni con altre conoscenze, e apprendimento significativo, dove le nuove conoscenze vengono collegate a conoscenze precedenti in sistemi che acquistano significati sempre più complessi e interessanti per chi apprende.

L’apprendimento mnemonico è quello normalmente usato a scuola (“studiare il libro di scienze da pag. 15 a pag. 18”). In esso le molecole sono una frase del libro di chimica da imparare per l’interrogazione di domani, e poi una frase del libro di fisica da imparare per l’interrogazione che sosterrò fra due mesi.

L’apprendimento significativo avviene per scoperta, per ricerca autonoma, per orientamento a problemi da definire e da risolvere. Le molecole della chimica sono le stesse della fisica.

L’apprendimento mnemonico dopo un po’ si dimentica, come è accaduto a tutti noi per gran parte delle cose studiate a scuola. L’apprendimento significativo fa parte della nostra personalità, è l’insieme di tutto ciò che sappiamo, che usiamo nella nostra vita e nel nostro lavoro, di cui sappiamo parlare e scrivere, che sappiamo insegnare ad altri.

Novak ha sviluppato le teorie di Ausubel con studi e ricerche presso la Cornell University, ed ha elaborato il metodo delle mappe concettuali e dei diagrammi a V.

Le mappe distinguono fra concetti e relazioni. I concetti possono contenere altri concetti, in modo gerarchico. Il concetto “cane” contiene i concetti “bassotto” e “doberman”. Le relazioni sono tutti gli enunciati che legano un concetto con l’altro. Nella proposizione “quando il cane è contento agita la coda” i concetti “cane”, “contento” e “coda” sono collegati dalle relazioni “è” ed “agita”. Concetti e relazioni costituiscono mappe in forma di rete, che rappresentano un insieme cognitivo dotato di significato.

I diagrammi a V sono strumenti euristici per organizzare una ricerca. In cima alla V si pongono le domande, nella punta della V si mette l’evento da analizzare. A sinistra vanno le teorie e le conoscenze che sono alla base dell’analisi, a destra le esperienze pratiche, la raccolta e l’interpretazione di dati.

La combinazione di mappe e diagrammi a V permette di acquisire, organizzare e rappresentare insiemi di conoscenza, che vengono organizzati per gerarchie dal generale al particolare, per differenziazioni progressive (“lupo alsaziano” diverso da “pastore tedesco”), per conciliazioni integrative (ma ambedue sono in relazione con “cane da guardia”).

I cinque elementi chiave dell’apprendimento significativo sono

  1. Allievo = chi impara
  2. Docente = chi insegna, o aiuta ad imparare
  3. Conoscenze = che cosa si deve o si vuole imparare
  4. Contesto = in che condizioni fisiche, ambientali, emotive, culturali si apprende
  5. Valutazione = da chi, come, con quali criteri, con quali scopi si viene valutati

Tutti e cinque gli elementi sono ugualmente importanti, e l’uno influisce sull’altro.

Rimando a Novak per la trattazione dettagliata dei cinque elementi, e qui mi soffermo solo sulla valutazione.

La valutazione

Gli esami rientrano nel campo della valutazione. Che cosa si valuta? La memoria? La capacità di sintesi? La capacità di gerarchizzare? O di creare relazioni? O di indovinare le risposte che piacciono a chi correggerà il compito?

Lo studente deve presentare un compito scritto a mano o col computer? Perché a mano quando ormai scriviamo tutti col word processor? Non sarebbe meglio richiedere un buon uso dell’outliner e degli stili grafici? O la capacità di costruire una struttura ipertestuale funzionante?

Il compito deve essere scritto sulla carta o può essere su cd rom? Deve usare il linguaggio verbale o può usare una struttura ipermediale? Se un ragazzo presenta un compito in Flash che facciamo, lo bocciamo o gli diamo un premio speciale?

È opportuno valutare con esami a fine percorso, o non sarebbe meglio valutare lungo tutto il percorso formativo? Lo studente deve essere valutato da altri o si deve autovalutare?

Se non volessimo fare gli esami così come sono ora, in che modo potremmo cambiarli?

Compiti che richiedono la soluzione di problemi predefiniti, test con risposte da scegliere, composizioni letterarie e grafiche, sono tutte prove che prevedono una valutazione di confronto con modelli predisposti (le soluzioni) e una votazione in base a quanto ci si discosta dai modelli. Sono piuttosto funzionali all’apprendimento mnemonico, e tendono a penalizzare la creatività e la capacità di affrontare problemi nuovi in modo personale.

Valutano il lavoro individuale perché ognuno deve rispondere alle domande per mostrare ciò che sa.

Per valutare l’apprendimento significativo invece sono stati proposti tre strumenti: diario di bordo, mappe concettuali, portfolio. Per ora si trovano nell’ambiente scolastico italiano solo a livello sperimentale, perché prevedono che gli insegnanti siano addestrati in modo particolare, dato che per ora sono abituati a dare i voti nel modo tradizionale.

Nel diario di bordo l’allievo annota tutto il suo percorso cognitivo, che cosa fa, quali problemi si pone, con chi lavora, che cosa scopre, che cosa prova, come applica ciò che ha imparato nei suoi giochi e nella sua vita.

Le mappe concettuali rappresentano l’insieme di conoscenze che l’allievo ha su un certo argomento. Prima di imparare l’allievo fa una mappa con tutto quello che sa, per esempio sull’evaporazione dell’acqua. Poi il maestro spiega il processo di ebollizione, e l’allievo fa un’altra mappa.

Quindi l’allievo prova a bollire l’acqua e insieme con i compagni fa le sue considerazioni. Poi prova a riscaldare altre sostanze e vede che cosa succede. Impara come si comportano le molecole in un liquido e in un gas.

Ora fa un’altra mappa.

Il confronto fra le mappe fa capire quanto l’allievo ha imparato, che cosa ha capito, come riesce a strutturare le conoscenze.

Il portfolio è una raccolta di prodotti di vario genere (scritti, calcoli, immagini, foto, video, audio, cd rom) e di relazioni di esperienze diverse che l’allievo ha fatto durante il percorso formativo, e che valuta egli stesso decidendo di includerli nella raccolta.

L’autovalutazione risponde a queste domande:

  • Perché questo ti sembra il tuo lavoro migliore?
  • Come l’hai prodotto?
  • Che problemi hai incontrato?
  • Come li hai risolti?
  • Che obiettivo ti eri posto?
  • E come sei riuscito ad ottenerlo?

Che differenze ci sono fra il tuo lavoro migliore ed il peggiore?

L’autovalutazione è molto formativa perché abitua l’allievo a collocarsi in modo giusto di fronte alle sue aspettative e ai compagni. Naturalmente l’insegnante aiuterà l’allievo a valutarsi nel modo più realistico e coerente con gli obiettivi dell’apprendimento e con i portfolio dei compagni.

Certo, fare questo tipo di valutazioni è molto più complesso, e richiede una preparazione accurata degli insegnanti. Ma chi ha mai detto che fare istruzione è una cosa facile?

Esperienze personali

Naturalmente, tutto ciò non avrebbe senso se oltre alla teoria non ci fosse la pratica. Novak ha ampiamente sperimentato le sue teorie con gruppi di lavoro della Cornell e con interventi in aziende.

Nel mio corso di comunicazione multimediale interattiva all’Accademia dell’Immagine dell’Aquila, da qualche anno ho rovesciato il modo consueto di tenere un corso. All’inizio propongo una serie di argomenti, e fornisco linee guida metodologiche su come organizzare le ricerche, l’organizzazione delle conoscenze, la presentazione. Poi gli studenti si aggregano in gruppi di lavoro dalle due alle quattro persone, e ogni gruppo sceglie un argomento. Fissiamo le date in cui gli argomenti dovranno essere trattati. Ogni gruppo si prepara, e fa una lezione di due ore sull’argomento scelto. Alla fine sia il gruppo che gli altri studenti valutano il lavoro svolto, in un dibattito in aula. Uno di loro fa una sintesi della valutazione che viene trasmessa alla segreteria della scuola.

La presentazione usata dal gruppo resta come materiale di documentazione nell’archivio della scuola. Il metodo funziona benissimo, perché i gruppi si impegnano molto e fanno bellissime presentazioni multimediali, con Power Point, internet, video, cd rom, dvd. Imparano a fare progetti, a organizzarsi fra loro, a rispettare i tempi, a presentare il loro lavoro.

Oltre a questa esperienza in aula, sono autore e docente di un corso on line sulle mappe mentali, Insegnare con le mappe mentali). Il corso, dedicato agli insegnanti, dura tre mesi ed ha lo scopo di proporre nuovi metodi e strumenti derivati dalle teorie di Novak e Buzan. I partecipanti scaricano un po’ di materiale e alcuni software, poi svolgono esercizi e compiti. Gli esercizi sono facoltativi, i compiti obbligatori. A conclusione del corso si fa un project work di gruppo, con gruppi che lavorano a distanza con forum e chat riservati al gruppo. Con questo corso cerchiamo di sensibilizzare gli insegnanti all’apprendimento significativo. Dopo aver svolto il corso, gli insegnanti restano a far parte di una comunità di pratica, dove scambiano esperienze e testimonianze su quanto riescono a fare nelle loro scuole. Mappe concettuali e mentali, outliner, flow chart e relativi metodi di uso e di valutazione, software come MindManager, Inspiration, Cmaps, Brain e Visio, sono strumenti didattici che gli insegnanti imparano ad usare e sperimentano nelle loro aule. Si tratta di un piccolo gruppo di pionieri, ma sono semi che gettiamo nel grande campo della scuola.

Queste sono basi concrete su cui si può ragionare per fare proposte di reale cambiamento delle nostre scuole, dove le scuole si evolvano per accogliere le nuove tecnologie, non per proibirle.

Approfondimento

Sofia Cramerotti, compendio delle teorie di Ausubel e Novak

Claudia Valentini, didattica metacognitiva

Dall’home page del mio sito si accede ad articoli e link sulle mappe mentali.

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