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Nel Sud del mondo rinasce l’infodiversità

23 Dicembre 2009

Nel Sud del mondo rinasce l’infodiversità

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Il citizen journalism intacca il latifondo mediatico nelle democrazie occidentali e fa emergere la vivacità dei paesi all'ombra dei mainstream media. Intervista a Gennaro Carotenuto

Il giornalismo partecipativo nelle sue varie incarnazioni è una delle pratiche simbolo del nuovo modo di fare informazione nell’era delle tecnologie mobili e digitali. Un trend che acquisterà sempre più centralità nel futuro di redazioni e cittadini, in modo particolarmente marcato nel mondo non occidentale. Nella nebulosa informativa odierna, i grandi gruppi editoriali restano tali pur se scricchiolanti, ma la speranza corre via internet, dove milioni di liberi cittadini rilanciano e commentano fatti (o almeno provano a farlo) e dove libertà di stampa vuol dire biodiversità informativa. Di questo abbiamo parlato con Gennaro Carotenuto, autore del recente volume Giornalismo partecipativo: Storia critica dell’informazione al tempo di Internet (Nuovi Mondi) e docente di Storia del giornalismo e dei nuovi media all’Università di Macerata.

Gennaro, come nasce questo saggio?

Il libro è nato da quasi 18 anni di vita in Internet, dal confronto con migliaia di persone incontrate studiando internet e la sua storia, facendo informazione in Rete dal 1992 a oggi, soprattutto attraverso il mio sito personale. Nonostante l’importanza della florida letteratura scientifica sul tema è stato il confronto, il dialogo proprio della nebulosa informativa a essere la chiave di volta. Inoltre la mia esperienza come docente universitario, l’organizzazione del primo master in Italia in giornalismo partecipativo, la costruzione di una radio universitaria sono stati altrettanto importanti.

Nella presentazione insisiti sull’esistenza del “latifondo mediatico” e sulla necessità della “biodiversità informativa”: che cosa intendi di preciso?

Il latifondo mediatico è sempre esistito, ma dalla tivù commerciale in avanti – come rivela il classico La fabbrica del consenso di Chomsky. La concentrazione editoriale, l’ammettere solo poche voci a parlare, tutte interne a quello che il gallego Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde Diplomatique, ha definito «pensiero unico», sono state la cifra del mondo dell’informazione negli ultimi decenni anche nelle democrazie liberali. La libertà di espressione si è trasformata in libertà di omologazione e soprattutto di concentrazione, distruggendo le realtà medio-piccole. In Italia i primi sei giornali vendono la metà di tutte le copie e la più piccola delle tv nazionali, Rai3, costa 300 milioni di euro l’anno. Tutto ciò ha però prodotto anche la crisi etica ed economica dei media mainstream, mentre i giornali cartacei sembrano alla fine del loro ciclo vitale e allo stesso tempo stanno sprecando l’opportunità offerta dalla Rete. In tal senso la cosiddetta “coda della cometa” – centinaia di migliaia di media partecipativi, né buoni né cattivi per definizione, ma sì sfuggenti all’ottica concentrazionaria del “pensiero unico” – rappresenta una possibile speranza.

Proprio nel senso della speranza, quali sono a tuo parere gli esperimenti di giornalismo partecipativo meglio riusciti nel mondo occidentale?

Uno degli esempi che faccio nel libro è la trasformazione della ragione sociale dell’associazionismo. Molte associazioni dall’occuparsi del tema X sono passate a utilizzare gli strumenti della rete, semplici Cms, per fare informazione sul tema X. Potrei fare molti esempi ma mi piace ricordare Libera di Don Luigi Ciotti che gemma Liberainformazione.

Eppure è innegabile che il citizen journalism appare più vivo e fruttuoso nei Paesi in via di sviluppo (Medio-oriente, Sudamerica, Africa), in aree e su temi del mondo spesso dimenticate dai Big Media: come vedi quest’ambito?

Senza internet difficilmente un luogo periferico come il Chiapas, con una popolazione di appena quattro milioni e mezzo di abitanti perlopiù analfabeti e completamente isolati, si sarebbe trasformato in un esempio globale già nella prima metà degli anni ’90. Nonostante qualcuno abbia sopravvalutato l’universalità del messaggio zapatista, già da allora gli ultimi della terra dimostravano, usando la rete, che Francis Fukuyama aveva avuto torto a parlare di «fine della storia», ma soprattutto che un’altra informazione era possibile. In California oggi si studiano i servizi di informazione via cellulare diretti agli immigrati indocumentati messicani per evitare le retate e le conseguenti deportazioni. Spero che qualcosa di simile possa esistere anche da noi.

I “media personali di comunicazione di massa” (preferisco chiamarli così rispetto alla «autocomunicazione di massa» del pur sempre illuminante Manuel Castells) sono già stati protagonisti di movimenti popolari dalla Thailandia all’Egitto, dall’Ecuador alla Spagna. Proprio il caso spagnolo, quello dell’11-14 marzo 2004, che ribaltò il risultato delle politiche dopo le bombe di Al Qaeda e le menzogne orchestrate da governo e media (caso ben dettagliato nel libro) testimonia che i media personali di comunicazione di massa vengano usati ancora in maniera estemporanea, carsica. Ma… ce n’est qu’un début, continuons le combat.

E dunque che cosa ti aspetti nel prossimo futuro?

Dal Chiapas ai migranti, dalla comunità sudanese al Cairo alle radio comunitarie venezuelane molti studi oggi affermano che il divario digitale tra Nord e Sud del mondo si sta riducendo fortemente. Secondo il rapporto ITU del 2007 nei 10 anni tra il 1997 e il 2007 il divario digitale tra i Paesi Ocse e quelli in via di sviluppo si è costantemente ridotto passando da 80 a 1 a 6 a 1, nonostante strumenti fondamentali come la banda larga siano tuttora prerogativa del Nord del mondo. La mia esperienza, maturata in costanti giri per il Continente ribelle e grazie alla partecipazione a incontri mondiali sull’informazione da Porto Alegre a Cochabamba a Caracas all’Avana a Belem a Buenos Aires, mi testimonia la vitalità del Sud nell’abbattere dogmi e paradigmi. Non mancano certo esempi in quest’ambito, da progetti come Global Voices Online a Telesur, la prima televisione pubblica multistatale, che fa sì che oggi il nord del mondo, che nel mainstream è dominante fino a occupare tutto lo spettro informativo e imporre finanche l’immaginario collettivo, nel mondo dell’informazione partecipativa deve spesso guardare. Ripeto: ce n’est qu’un début, continuons le combat.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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