Prosegue senza sosta la battaglia sulla proprietà intellettuale online. Grazie anche alla sua estensione in acque internazionali, o per meglio dire, nello scenario globale garantito da internet. Al centro della tenzone, manco a dirlo, l’industria discografica e i servizi peer-to-peer (P-2-P). La prima aveva messo K.O. lo spavaldo Napster e l’alter-ego Aimster, ottenendo però sentenze giudiziari valide soltanto sul territorio statunitense. Motivo per cui il tornado Kazaa, con base in Olanda, ha continuato ad operare in piena tranquillità sulla base di una decisione di segno opposto relativa a quel paese. Poco meno di anno fa, una corte d’appello dei Paesi Bassi ha praticamente stabilito che il sistemone di file-sharing non è responsabile di azioni illegali condotte dagli utenti che ne utilizzano il software. Ergo, finora il download del programma è avvenuto quasi 200 milioni di volte da ogni parte del globo, secondo una stima di Download.com, pur se comprensiva di duplicati o semplici upgrade.
Il bello è che la medesima sentenza, pur se attualmente al vaglio della Corte Suprema olandese, viene usata ora come base per l’avvio di un’iniziativa potenzialmente dirompente, almeno per le major discografiche internazionali. Già il nome è tutto un programma: The Honest Thief, il ladro onesto. Cosa sarebbe? Nient’altro che la nuova, invincibile incarnazione di programmi di file-sharing. In primavera la PGR, società di servizi internet ufficialmente operante sotto la dicitura The Honest Thief, lancerà un vero e proprio piano commerciale finalizzato alla vendita di licenze sul proprio software innovativo per il P-2-P, con annessa fornitura di assistenza legale a chiunque deciderà di farne uso per qualsiasi scopo e contesto. “Definiamolo pure scambio-file o borseggio, ma qui in Olanda significa buoni affari,” chiarisce Pieter Plass, fondatore di The Honest Thief. “Con l’offerta di nuovo software e relativi servizi puntiamo a diventare l’equivalente delle banche svizzere per il settore del file-sharing.”
Esagerate o meno che siano le speranze dei promotori, è chiaro che, nonostante qualche blocco giudiziario o legislazioni ad hoc, simili attività continueranno a propagarsi anche e soprattutto in ambito extra-statunitense. Facendo rizzare i capelli in testa ai dirigenti delle major del mondo intero. Le quali non hanno certo perso tempo nel replicare all’annuncio di The Honest Thief. Così puntualizza un comunicato del consorzio IFPI, rappresentante dell’industria discografica internazionale e affiliato della Recording Industry Association of America (RIAA): “È difficile capire come qualcuno possa sostenere di ‘guadagnare onestamente’ quando ruba il lavoro altrui.” Il gioco insomma si fa più pesante e articolato, costringendo l’industria ai salti mortali per tener dietro al balletto del file-sharing che ovviamente non si cura delle dogane nazionali. La faccenda interessa settori quali film, musica e perfino software, i cui bilanci annuali vantano dimensioni a dir poco pantagrueliche.
Uno scenario complessivo che, ne sono coscienti un po’ tutti gli attori coinvolti come pure gli esperti, non sembra affatto avviato a soluzioni soddisfacenti in tempi brevi — anzi, tutto l’opposto. “Dopo oltre due anni di battagli legali contro i siti di peer-to-peer e contro i servizi di file-sharing, queste tecnologie e i relativi business model continuano ad evolversi in modo da aggirare le sentenze emesse negli USA,” spiega Lee Black, analista presso Jupiter Research. “Il fatto che ciò tenda a spostarsi in aree internazionali costituirà sempre un problema per l’industria — i servizi continuano a spuntare ovunque e i consumatori troveranno comunque il materiale che vogliono.”
Ma se le acque internazionali si fanno agitate, non certo più serena si mostra la scena strettamente legata al made-in-USA. Dove le recenti notizie su (presunti?) accordi in corso tra high-tech e Hollywood per fermare i “pirati” favorendo al contempo l’innovazione tecnologica, potrebbero finire per stritolare le solite vittime, gli utenti. Ecco perché la scorsa settimana DigitalConsumer.org figurava tra gli sponsor di un importante evento in quel di Santa Clara, cuore della valle al silicio. Il Digital Rights Summit puntava a concretizzare un messaggio tanto semplice quanto preciso: leggi come il Digital Millennium Copyright Act (DMCA) stanno seriamente minacciando l’innovazione a Silicon Valley, è ora che aziende high-tech e cyber-consumatori si mobilitino per modificare tali leggi. In pratica, una nuova di levata di scudi contro le major di Hollywood e industrie annesse, compromessi o meno in arrivo.
Lo ha spiegato a chiare lettere dal podio Joe Kraus, co-fondatore di Digitalconsumer.org: “Le pesanti restrizioni del DMCA minacciano alcuni dei pilastri su cui poggia Silicon Valley: l’interoperabilità, l’innovazione senza permessi e la volontà di privilegiare l’utente. Applicando in maniera eccessiva una legge mirata a prevenire la pirateria su internet si rischia di bloccare la legittima concorrenza. E Silicon Valley deve vigilare affinché non si arrivi a tanto.” A calcare ancor più la mano ci ha pensato Hank Barry, ex-CEO di Napster e oggi nel giro del venture capital di Hummer Winblad. “La gente ha talmente paura di essere denunciata che preeferisce non rischiare alcuna innovazione, anche quando la tecnologia su cui lavora non è affatto controversa.” E per molte start-up, ha concluso Barry, “le attuali norme costituiscono una buona possibilità di essere portate in tribunale.” Quale la difesa dei politici contro queste pesanti accuse? Tra dirigenti, investitori ed esperti si trovavano infatti anche i parlamentari democratici Ron Wyden, Zoe Lofgren e Howard Berman. Quest’ultimo ha preso la parola per dire che tali accuse appaiono “esagerate e semplicistiche,” aggiungendo che i digital rights sono divenuti una sorta di paravento dietro cui nascondere gli eccessi economici di Silicon Valley a fine anni ’90 e i fallimenti odierni di un industria in netta recessione. “Non si può credere davvero che siano Hollywood e le leggi repressive sulla proprietà intellettuale a causare effetti restrittivi all’innovazione high-tech,” ha aggiunto Berman. “Mettiamo le cose in prospettiva. Questa situazione non è poi così seria come i 45 milioni di statunitensi privi di assicurazione sulla salute.”
Ma se al Digital Rights Summit, come in altre occasioni, certi confronti parevano dialoghi tra sordi, importanti riflessioni a largo raggio sono arrivate dal Professor Lawrence Lessig della Stanford University Law School. Il quale ha ribadito ancora una volta il timore che i legislatori di Washington possano limitarsi a considerare l’uso di internet per come lo conosciamo oggi. Ovvero quando la maggioranza degli utenti ricorre a lenti download di materiali sui PC tramite i comuni collegamenti dial-up. Secondo Lessig nel giro di un paio d’anni “la banda larga di massa” renderà del tutto superato ogni dibattito sul copyright digitale. “In futuro sarà più semplice pagare l’abbonamento per l’accesso a servizi professionali che fare il dilettante che scova e trasferisce in giro i propri materiali. L’errore fondamentale sta nel legiferare sulla base dell’odierna architettura per la distribuzione dei contenuti.” Chi ha orecchie per intendere….