Tra la marea di interventi online sul tema-guerra, Alternet.org rimane senza dubbio uno dei siti più stimolanti. Nei giorni scorsi vi è apparso un interessante articolo firmato da Farai Chideya, fondatrice di PopandPolitics.com, dal titolo Internet Kills the Television Blahs. Si illustrano i meriti di internet, rispetto alla TV, nel fare informazione sugli eventi bellici e sulle varie tematiche a latere. Come il volume da lei recentemente curato (The Color of Our Future) che riporta storie di vita reale/quotidiana della variegata comunità afro-americana, il senso del pezzo sta nel voler dar voce alle numerose culture ed etnie che convivono in qualche modo sul suolo degli Stati Uniti e dell’intero pianeta. E che sempre più ricorrono a internet per veicolare tali storie e tali voci. Senza tuttavia ignorare le ombre insite nell’attuale scenario legato a media e politica nel digitale, ombre di cui bisognerà accorgersi e disfarsi onde consentire una sempre maggiore crescita e diffusione di fonti alternative/indipendenti. Quanto segue è una sorta di sintesi ragionata dell’articolo, integrata da osservazioni e spunti sparsi.
La prima guerra del golfo del 1991 è passata alla storia — oltre che per la rapida conclusione, 100 ore — come la “television war”. Allora è stata infatti la TV a farla da padrona, con l’ascesa al trono di CNN nelle case delle famiglie statunitensi, pur se con report in stile videogame. Da allora, l’uso di internet è cresciuto in maniera esponenziale, motivo per cui stavolta frotte di persone hanno preferito (e preferiscono) affollare il medium digitale alla ricerca di informazioni, ma soprattutto contro-informazioni, sull’attualità bellica, con i vari annessi e connessi. Diminuisce il numero di quanti se ne stanno incollati al tube (il che in USA è tutto dire, vista la media nazionale di 3-4 ore al giorno pro capita, bimbi inclusi), non ultimo per via dell’arcinota passività indotta dal mezzo stesso. Essenziale quindi dare risalto alla potenzialità offerte dall’elemento interattivo: il clic del mouse come strumento ideale per filtrare le notizie, per ricevere e inoltrare quelle ritenute più valide, per trasformarsi in veri e propri editori indipendenti (i blog insegnano). E insieme, per mantenere un più che salutare controllo su cosa merita di essere seguito nonché sull’eccessiva invasione mediatica della sfera personale e della propria mente. Conferma lo scrittore australiano Richard Evans: “preferisco le news online alla televisione perché ho maggio controllo sul tipo di immagini e storie che leggo.”
Giusto per fare un esempio, continua a riscuotere molto successo la funzione di inoltro ad altri degli articoli sul web, funzione ormai presente in ogni testata. Secondo Christine Mohan, portavoce di New York Times Digital, lo scorso marzo, mese in cui si il quotidiano ha registrato il maggior volume di traffico, la media degli articoli inoltrati ha toccato una cifra record: una media di 75.000 al giorno. E nei giorni immediatamente antecedenti l’avvio della guerra, si sono toccate punte di 120.000 articoli inoltrati ogni giorno. Un trend che non fa altro che sfruttare l’antico e affidato sistema del passaparola. Spiga Mohan: “Quando si invia qualcosa a un collega o a un amico, è molto più probabile che costui la legga. Si tratta di fiducia intrinseca.” Pratiche queste coltivate giorno per giorno da ‘agenti intelligenti’, singoli individui che raccolgono, filtrano e ridistribuiscono quanto meglio aggrada loro, senza dover subire le volontà dei redattori giornalistici e, quel che è peggio, delle mega-corporation dei media.
Ovviamente il flusso d’informazione basato su simili procedure risulta ancor più efficace per fonti alternative o indipendenti, oltre che per concretizzare il tipico attivismo. Anche se non va dimenticato il rovescio della medaglia, altrettanto tipico: la credibilità dell’informazione diffusa. Notando come sia facile che sui listerserv progressisti circolino notizie poco accurate, non verificate o fasulle. Emily Gertz, professione Web producer, suggerisce il possibile rimedio: “Per maneggiare la potenza della networked information occorre diffondere un consistente livello di conoscenza sulle risorse e sulla net-etiquette da parte di quanti tra noi sono online da parecchio tempo (oltre dieci anni).” È bene fare molta attenzione insomma, a non inoltrare testi voluminosi o d’interesse eccessivamente ristretto, e farlo comunque con parsimonia. Rimanendo vigili, manco a dirlo, per evitare la massimo di cadere nelle ripetute hoax (bufale) di ogni tipo e fattura. Nel complesso, però, il sistema dimostra di sapersi auto-correggere, e gli ‘agenti intelligenti’ imparano a vicenda come muoversi al meglio sul fronte dell’informazione online. L’unico elemento che potrebbe bloccare la missione di costoro è la questione economica. Notoriamente finora il magma delle notizie veicolate dal e nel medium digitale, non solo quelle intorno alla guerra, rimane nella stragrande maggioranza dei casi gratuito. Mentre il dibattito, e gli esperimenti, proseguono tra le testate ufficiali, dai siti dei quotidiani a quelli dei canali TV, per la richiesta di abbonamenti e/o tariffe varie per l’accesso alle news. La conclusione di Farai Chideya, con cui non si può non dichiararsi d’accordo, è che lo scenario fin qui descritto vada visto come tendenza decisamente positiva, considerato soprattutto il media monopoly più che mai attuale negli USA (e altrove). Soprattutto perché alla fin fine il tutto stimola e supporta una maggiore libertà livello individuale, facendo proprio lo slogan di Fox News: “You Report, The World Decides” — tu riporti, il mondo decide.