Il bit che si fa materia è la nuova rivoluzione industriale? L’eccitazione della connettività globale è già un cold case surclassato da un caldo colare di materia plastica che fuoriesce da protuberanze intelligenti?
Crediamo veramente che una stampante 3D sia l’inizio di una nuova convivenza sociale, dove il consumismo fa posto alla creazione fai-da-te e la civiltà industriale può andare a farsi benedire dai guru di Arduino?
Forse sì, forse chissà. L’incessabile vento della rivoluzione dei Makers ha dei risvolti di utopia che andrebbero considerati, ma è anche facile sbagliarsi di grosso, come sempre accade all’inizio delle vere rivoluzioni. Domanda: a un movimento che sta espandendosi a macchia d’olio è richiesto da subito un passo d’umiltà collettivo, per comprendere bene come collocarsi nelle filiere produttive, qualunque esse siano?
Parrebbe così a leggere l’articolo di David Rotman, editore del magazine del prestigioso Massachusetts Institute of Technology, crogiolo dell’ottanta percento dell’innovazione tecnologica mondiale. Che oltretutto vanta, guarda il caso, anche la prima teorizzazione delle stampanti 3D. In un suo recente intervento conclude più o meno così:
Per avvicinarsi al nobile obiettivo […] di rivoluzionare l’industria manufatturiera, makers e startup dovranno collaborare non solo tra di loro, ma anche con le grandi imprese industriali. E per fare ciò, il movimento makers dovrà essere molto più curioso e consapevole di come gli oggetti che usiamo siano effettivamente realizzati.
Ora lasciatemi andare a stampare la maniglia della mia lavastoviglie, che non chiude bene e va sostituita.