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L’umanità ritrovata al festival della scienza

31 Ottobre 2011

L’umanità ritrovata al festival della scienza

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L'intelligenza globale, la coscienza della rete, l'estensione dell'intelligenza e della memoria, nell'incontro con Michael Chorost e Derrick De Kerckhove a Genova

Il Festival della scienza di Genova arriva alla sua nona edizione e continua a raccogliere e presentare all’Italia le testimonianze e i racconti di scienziati, filosofi e divulgatori scientifici di tutto il mondo. Come spesso accade a chi segue eventi come questo per tutto il loro corso (quest’anno dodici giorni), ci si ritrova la sera a unire i puntini e a ottenere una visione più ampia di quello che accade durante il giorno. Ci si trova a stretto contatto con chi l’innovazione la immagina, la racconta o la realizza, con persone straordinarie che con le loro visioni e il loro lavoro stanno disegnando il nostro futuro. Sono tanti coloro che, passando di qui, quel futuro lo hanno descritto presentandolo come un futuro ormai prossimo e in fase di realizzazione. Ma ci sono anche persone per cui quel futuro è già arrivato.

L’uomo bionico

È il caso di Michael Chorost, un ometto magro, disponibile e con una storia incredibilmente affascinante. La sua storia parte da una fine. Michael Chorost ci ha raccontato con semplicità di quando è diventato completamente sordo a 37 anni e di quando, poco dopo, è diventato bionico. L’impianto, come lo definisce lui, è composto da due piccoli dischi neri e magnetici da indossare dietro l’orecchio. «Nel mio cervello ci sono due chip come questi», e mostra due dischi bianchi grandi come una noce, «che ricevono le informazioni che arrivano dall’esterno. Nel mio cervello sono impiantati alcuni elettrodi che trasmettono i segnali ai miei nervi uditivi. Per far si che questo accada, ovviamente, hanno dovuto inserire centinaia di migliaia di transistor nella mia testa. All’inizio è stato molto difficile. Ascoltavo la radio ed erano rumori completamente non-sense. Era come ascoltare una lingua che non conosci. Devi esercitarti, fare pratica.
Ma piano piano ho imparato ad ascoltare qualcosa che prima non ero mai riuscito a sentire. L’anima delle persone».

L’udito di Michael Chorost può essere  migliorato con nuovi software che apportano modifiche al suo impianto e questo ci porta a un interrogativo: dove finisce la macchina e inizia l’uomo? Chorost sorride: «Tutti amano la tecnologia, e io anche. Ma nel mio caso è diverso perché io ho la tecnologia dentro di me. Però, la macchina è solo una cosa. Non ha una mente. Un po’ come il violino nelle mani del musicista: è solo uno strumento, perché è il musicista a suonarlo. Il mio impianto è solo un arnese, mi manda informazioni che io devo imparare a capire. Non è magico, non mi fa capire, sono io che so cosa succede». Quando il mondo è così difficile da sentire, capita che ci si alleni a tendere l’orecchio. Ad ascoltare più a fondo. Credo di aver sviluppato una maggiore empatia nei confronti delle persone», riflette.

L’intelligenza di internet

Nel suo secondo libro, World Wide Mind, Chorost cerca di indagare su un’idea, un concetto che rappresenta un’imminente intelligenza globale con un’intenzionalità e una coscienza propria, tenendosi lontano dall’idea fantascientifica che internet, di per sé, stia per diventare intelligente. «Questa è un’idea assurda», dice. Piuttosto, il «World Wide Mind è l’agire in concerto di esseri umani e Web. La combinazione di questi due elementi può dare origine a un germe di intelligenza superiore a quello delle singole parti. Perché non si può fermare quella fame di restare connessi, il desiderio di guardare lo schermo, ma è possibile incorporare quel bisogno in un fondersi effettivo della tecnologia con il corpo, per fare di quella connessione tramite la tecnologia un collegamento fisico».

Lui questo collegamento lo incarna. Letteralmente. E, nell’era della tecnologia, apre a numerosi interrogativi: quando i sensi diventano programmabili, possiamo credere a quello che ci dicono del mondo? Una domanda che abbiamo posto a uno psico-tecnologo, ospite anche lui del Festival: il sociologo belga Derrick De Kerckhove. «Stiamo vivendo un cambiamento epocale», spiega De Kerckhove. «Una rivoluzione che il sociologo dei media Marshall McLuhan, del quale ricorre il centenario dalla nascita, aveva già previsto nel ’62. Il decalogo di McLuahn è sorprendente per la sua lungimiranza: diceva, infatti, che il prossimo medium sarebbe stato l’estensione della coscienza, e infatti internet è un’estensione enorme che contiene memoria e intelligenza. Che la tv sarebbe diventata una forma d’arte: e che cos’è YouTube se non la televisione messa a disposizione di ciascuno di noi, trasformata in arte e in emozione globale? Il sogno di Marx realizzato: l’appropriazione di uno strumento a disposizione di tutti».

Terza età del linguaggio

McLuhan non si era fermato qui: il grande sociologo, infatti, aveva definito il computer come il prossimo «sistema di ricerca e di comunicazione», in grado di «migliorare il recupero dell’informazione e rendere obsoleta l’organizzazione della biblioteca», di svolgere una «funzione enciclopedica» e di trasformarsi in una «linea privata per trasmettere dati». Oggi infatti, continua De Kerckhove, «ci troviamo nella terza età del linguaggio. La prima rappresentata dal regno dell’oralità, basata sui rapporti faccia a faccia e sulla socialità. La seconda, l’era della scrittura, crea una situazione nuova: il linguaggio viene esternalizzato, messo sotto il controllo del lettore in modo da generare un rovesciamento tra comunità e individuo, che prende il potere sul linguaggio e scrive il suo destino. Con il passaggio all’elettronica invece, nella terza era, il linguaggio si mischia al nostro essere. Grazie alla digitalizzazione diventiamo creatori e attori del linguaggio, ma siamo anche condizionati dalla tracciabilità e dalla profilizzazione. Infine l’iPad, che ci riporta al tatto, ribaltando il pensiero del secolo di Freud, nel quale l’ uomo ha paura del suo corpo e l’occhio ha la meglio sul tatto».

«Il mondo di oggi, invece, è più tattile che visivo», continua De Kerckhove, «dobbiamo toccare, scorrere, nuotare nell’informazione. E la conseguenza di tutto questo non può che non essere una moderna magia. Poi c’è Twitter, che amo molto: rappresenta la maturazione estrema della rete. Il sistema nervoso esteso al pianeta, perché arriva ovunque e dovunque. Al Cairo si può twittare quello che succede e, così facendo, si possono cambiare i rapporti di potere di quel paese». Twitter è quindi ciò che meglio rappresenta il polso della rete, diventando una sorta di contenitore e termometro del sentimento collettivo. Un’antenna globale perennemente in ascolto. Una sorta di inconscio globale digitalizzato, moderna versione di quell’inconscio collettivo di junghiana memoria. Eppure anche nel “mondo magico” contemporaneo c’è il rovescio della medaglia, perché questo “inconscio digitale” è violabile da chiunque, portandoci allo stesso interrogativo che ci siamo posti dopo aver conosciuto Chorost:  possiamo credere a quello che questo inconscio digitale ci dice del mondo?

Garantire l’umanità

De Kerckhove ci racconta che questo inconscio è «profilabile e a disposizione. È conservato nelle banche dati. Quando facciamo una ricerca su Google, per esempio, veniamo profilati, tracciati in ogni movimento. E questo è un problema: quello di un Pinocchio 2.0 che, come Charlie Chaplin in Tempi Moderni, è l’estensione della macchina con cui lavora. Per questo, la prossima sfida tecnologica sarà tornare a essere umani, e non solo macchine». L’incontro tra chi il futuro lo immagina cercando di anticiparlo e chi lo incarna dentro di se, ci conduce ad un punto di vista più antico di quello che immaginavamo. Un punto di vista in cui, nonostante l’affermarsi della bio-tecnologia, della psico-tecnologia e delle emozioni globali veicolate attraverso i bit, la sfida più grande rimane quella di continuare a garantire all’uomo l’umanità che lo rende tale, magari ispirandoci a chi, pur essendo bionico, per capire la macchina che aveva dentro di se ha dovuto imparare prima ad ascoltare l’anima delle persone che aveva di fronte.

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