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L’opportunità dei contenuti a pagamento

22 Aprile 2011

L’opportunità dei contenuti a pagamento

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Se il paywall si diffonde, le aziende possono venderci i prodotti in promozione: compra il mio prodotto, in omaggio l’accesso al giornale (o, più in generale, al contenuto)

Piano piano, come peraltro ampiamente previsto, il pay per content rialza la testa e gli editori provano a uscire dal trappolone in cui internet li ha ficcati. Il modello free, se pur ha rappresentato uno straordinario vantaggio per i lettori, ha messo in crisi (o meglio, ha contribuito a mettere in crisi) gli editori di periodici – che non sembrano riuscire globalmente a svoltare la nottata monetizzando in pubblicità il regalo del contenuto. Se da un lato, da un punto di vista macroscopico, possiamo leggere lo scenario come un sano esempio di darwinismo editoriale, che porterebbe all’estinzione delle testate incapaci di generare tale traffico e tale interesse da parte degli inserzionisti da fatturare pubblicitariamente più di quel che gli serve, dall’altro la possiamo leggere in modo opposto.

Il rischio tabloid

Possiamo leggerla come un rischio, sapendo che i grandi numeri (la televisione insegna) spesso si fanno con scandalo e giornalismo arrembante, con il rischio che le testate che danno qualità (e quindi fanno numeri più piccoli) muoiano e sopravvivano mezzi più scandalistici, populisti, se necessario menzogneri e demagogici. Modello tabloid inglesi, per capirci. O potremmo rievocare il rischio che sopravviva solo un’informazione sponsorizzata politicamente, stile conflitto di interessi. Dall’altro lato potremmo vederla anche dal punto di vista degli editori e di tutta la gente, spesso di qualità, che nelle case editrici; la quale a trovarsi senza lavoro in nome di un economia di mercato – anzi di sconvolgimento del mercato, come quella che prevede il regalo del prodotto – potrebbe avere qualcosa di molto personale da obiettare.

D’altra parte anche l’arrivo dei tablet ha presentato una buona scusa o una buona opportunità di ritornare a far pagare il prodotto editoriale come ai tempi della carta, idem dicesi per gli e-book reader, dove di gratuito c’è pochino. Quanto poi la mossa del pay per content funzionerà e il meccanismo di sostituzione di un’informazione di “alta qualità” a pagamento con una di qualità meno “certificata” ma gratis si innescherà o meno, è tutto da vedere, perché qui i tempi non sono così istantanei come in tanti altri ambiti della Rete; ed è tutto da valutare l’impatto di modelli che prevedono sostanzialmente che chi produce informazione (le persone, più che gli editori) non venga pagato per il suo nobile compito – e qui si potrebbero fare lunghe discussioni sul caso Huffington Post e sulla diaspora dei suoi “redattori”.

L’accesso è un gentile omaggio

In tutto questo, se da un lato è da tenere bene d’occhio il risultato che riusciranno a fare i vari Murdoch e i vari New York Times, dall’altro si apre una possibilità di marketing per le aziende – pregiata in quanto può andare a lavorare su un target culturalmente più elevato come quello ad esempio dei lettori di quotidiani di un certo calibro. Ma anche di una massa più ampia, ad esempio interessata a informazione sportiva. L’opportunità è quella della sponsorizzazione dei contenuti. Il modello di base è quello di permettere alle persone di accedere gratuitamente a contenuti altrimenti a pagamento, visto che i soldi all’editore li mette l’azienda sponsor. E questa è la forma più light, elegante e quindi forse meno efficace dal punto di vista del business dello sponsor. Modelli di questo genere già si vedono negli Stati Uniti, tanto per citarne un paio che ho visto in rete si può menzionare Volvo, che offre un accesso a MLB.TV, per vedere gratuitamente in streaming le partite di baseball. O Ford, che attraverso la sua marca Lincoln ha selezionato 200.000 lettori del NewYork Times cui ha concesso l’accesso gratuito al quotidiano saltando il paywall. E si potrebbe continuare ancora.

Il tutto, per l’azienda, a costi sostanzialmente ben più contenuti per il contenuto di quanto fosse possibile prima di internet, dove oltre al content dovevi pagare anche la carta, l’erogazione di un abbonamento fisico al beneficiario della promozione eccetera eccetera. Posso invece immaginare forme più commerciali, ad esempio affini a quanto fatto con le ricariche telefoniche (mi ricordo, questo Natale, un panettone che offriva nella sua confezione una ricarica per un noto operatore di telefonia mobile). Modelli che permettano – attraverso raccolte punti, premi fedeltà, incentivi sull’acquisto o simili – di scambiare una mia attività e/o esborso economico per comprare un prodotto contro l’accesso gratuito all’informazione, al periodico. Compra la mia benzina e ogni 10 litri una settimana di Corriere della Sera sul mobile. Prendi il mio aereo e ti regalo l’accesso per un mese alla Gazzetta. E così via. Il contenuto quindi come moneta di scambio, così come ha fatto ad esempio Microsoft che ha regalato un mese di Hulu (il noto portale di video) per gli utenti che scaricavano Explorer 9.

Cultura contro attenzione

Sempre di marketing si tratta, ma non più (solamente) una comunicazione e un modello di business basato su banner e affini – un modello che usa il contenuto free come esca per farci comprare. E, coi tempi che corrono, se per farmi comprare mi attirano con un contenuto di buona qualità, diciamo quindi che mi offrono cultura in cambio della mia attenzione o della mia preferenza. A me, in fondo sta bene, visto che le aziende negli anni ci hanno abituato a ben di peggio.

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