Quattro pretesti recenti. Il primo. Il direttore del Tg1 Gianni Riotta, uno che dentro Internet ha maturato esperienze sconosciute alla maggior parte dei giornalisti italiani, sta provando a contaminare le notizie del telegiornale con gli spunti dalla Rete tutte le volte che se ne presenta l’occasione. Il risultato si nota, e non è poco, ma per ora non va molto oltre l’invito alla messaggistica compulsiva (“Scriveteci la vostra opinione”) o la divulgazione di bassa lega (“Il video più popolare del momento su YouTube è…”).
Il secondo. Il comico Beppe Grillo riempie i palasport e le piazze divulgando argomenti politici complessi e non lesinando mai particolari su quanto Internet gli abbia cambiato la vita. Racconta di aver fregato i media con un blog, ma non c’è una volta che spieghi ai suoi seguaci come nello stesso modo potrebbero fare a meno anche di lui, se lo volessero.
Il terzo. Le grandi testate d’informazione italiane guardano a Internet con curiosità. Morbosa, perlopiù, tant’è che non perdono occasione per raccontarne la cronaca nera più improbabile. Costituiscono un’eccezione le dichiarazioni istituzionali di quanti sentono l’urgenza di regolamentare, vincolare, proibire, restringere, codificare – inutilmente, ma loro non lo sanno. E le improbabili celebrazioni di anniversari che nessuno, dentro alla Rete, festeggia davvero.
Il quarto. Un manipolo di blogger in tutto il mondo sta imparando una nuova grammatica della comunicazione, provando a fare in prima persona molte delle cose per cui fino a poche stagioni fa dipendeva dalla mediazione altrui. I loro tentativi sono sempre più spesso rallentati o confusi da reazionari d’ogni sorta, i quali necessitano di continue misurazioni (quanti siete? quanti scoop avete fatto? quanti politici avete fatto dimettere? quante volte avete modificato l’agenda setting?) per tenere a bada il fenomeno e minarne le intenzioni.
Tutti questi segnali dicono una cosa, soprattutto: che stiamo perdendo un’occasione. Nella corsa alle libertà digitali stiamo perdendo di vista chi queste libertà dovrebbe esercitarle. Da questo punto di vista ciò che sta accadendo in Rete può essere sintetizzato in modo molto semplice: le persone hanno la possibilità di fare in prima persona e di condividere ciò che fanno con chiunque altro al mondo. Non è un invito a sostituire i mediatori tradizionali – i quali, se curano la propria ansia, vivranno ancora a lungo – quanto semmai un’occasione per ripensarci tutti quanti come attori sociali a tutto tondo, domatori di comunicazioni a due vie, amplificatori di messaggi all’interno delle proprie reti sociali, inventori di nuovi punti di vista. Anche mediatori, nella pratica, ma senza l’ambizione delle folle, perché le rivoluzioni copernicane del pensiero umano agiscono nel piccolo e senza fretta.
Internet non inventa nulla, da questo punto di vista. Ci restituisce a noi stessi come animali sociali, ci dona una socialità nuova che se è sconosciuta alle nuove generazioni forse non sorprenderebbe i nostri nonni. La partecipazione ha una via d’andata e una di ritorno, ma la prima, nella maggior parte dei casi, s’è atrofizzata. La Rete riapre quel canale, moltiplica i segnali e ci porta su una dimensione globale dove ogni segnale potenzialmente può entrare in contatto con ogni altro segnale presente o passato.
Ricordo che quando Howard Rheingold nel 1994 parlava di «enorme spostamento di potere» rimanevo perplesso: il grande ipertesto globale ci rende tutti autori e lettori, emittenti e riceventi, d’accordo. Ma è questione di potere? E soprattutto: è poi così enorme? Oggi ne sono convinto, e avverto l’urgenza del tentativo. Stiamo acquisendo potere non perché abbiamo la possibilità di contrastare quello dei centri istituzionalizzati, siano essi testate d’informazione, partiti politici, interessi economici o quant’altro. Non soltanto, almeno. Acquisiamo potere perché ci stiamo riappropriando di una voce pubblica individuale e di sistemi efficaci per farne sintesi ed elaborarla collettivamente. Lo strumento è una tecnologia abilitante – o meglio una serie di tecnologie abilitanti, tutte espressioni delle fondamenta del web – divenuta in poco tempo matura, semplice e accessibile a larghe fette di popolazione mondiale (benché ancora molto si possa fare in questo senso).
Abbiamo lo strumento e abbiamo l’occasione. Manca solo di farlo sapere a quante più persone possibile. E qui qualcosa s’è interrotto, negli ultimi mesi. Un circolo virtuoso inceppato, che gira su se stesso producendo meno valore del suo potenziale. Da un lato abbiamo ricominciato a prestare più attenzione del necessario allo strumento – e l’entusiasmo per il mercato ancora fittizio che gira a quello che tanti chiamano web 2.0 ha di certo fatto la sua parte. Dall’altro non riusciamo a fare a meno dei metri collaudati con cui siamo abituati a misurare il mondo: piccolo non è ancora bello, perché siamo assuefatti all’estetica del gigantesco di cui si alimentano media, partiti, aziende e personaggi del mondo in cui viviamo.
Così la ripresa d’autunno potrebbe diventare una scusa per ripartire e rimettere gli occhi sulla palla. I blog sono morti, come si affrettano a dire gli annoiati, i bastian contrari e i patiti dell’innovazione più veloce dell’assimilazione? Bene, pace all’anima loro, se il loro sacrificio sarà utile: non sono i blog la novità, sono un mezzo. Anche l’automobile è un mezzo e, salvo pochi fanatici, a quanto pare ci curiamo assai più della meta da raggiungere che delle caratteristiche del motore. Abbiamo e avremo altri mezzi, ma di certo dopo l’automobile non torneremo alla carrozza trainata da cavalli – e nel frattempo chiunque lo desideri può avere almeno un’utilitaria. Di nuovo, a prescindere, ci sono mattoncini della società che si riattivano per renderla un po’ migliore, in modi e in direzioni che – una volta tanto – nessuno ha stabilito in partenza.
Così, se fossi Gianni Riotta direi agli ascoltatori del maggiore tg italiano: ci siamo distratti, il video più visto della settimana su YouTube è un numero da circo, vale solo come testimonianza dei gusti diffusi in un dato momento all’interno di un certo servizio. La notizia, invece, è che il video lo puoi fare tu, che è molto più facile di quanto pensi, che è pieno di persone che ti possono aiutare a farlo, che magari poi il tuo video lo vedranno anche solo in quaranta, ma che diamine sei tu, è il tuo mondo, è il tuo punto di vista e tu l’hai messo in circolo.
Se fossi Beppe Grillo direi: ehi ragazzi, andiamo forte, ma non statemi tutti qui tra le palle, che i vostri commenti nemmeno li leggo, non ho né il tempo né la voglia. Moltiplichiamoci, apritevi un blog anche voi, diffondete il verbo, colonizzate le vostre reti sociali. È facile, basta andare su un sito come Splinder o Blogger o Typepad o WordPress, registrarsi e poi scrivere come su un blocco note o un elaboratore di testi. Se ci riesco io ce la potete fare anche voi. Orsù, andate e moltiplicatevi.
Se fossi un grande giornale italiano ricomincerei a pubblicare, come accadeva qualche anno fa, una mezza pagina dedicata a Internet. Un paio di articoli al giorno, non di più. Ma invece di seguire il fiuto del cronista di nera, metterei sotto torchio i migliori divulgatori che abbiamo oggi in Italia e li farei raccontare quello che succede. Succedono tante cose dentro Internet, non solo pruriginose e non solo riguardanti pezzi di plastica e silicio: ma così come un critico cinematografico non sarebbe capace di decodificare dignitosamente un processo penale, allo stesso modo per raccontare il nuovo che accade dentro uno strumento nuovo serve il cronista giusto.
E se infine fossi, come del resto sono, uno dei tanti blogger insignificanti che raccontano quello che gli gira intorno annotandolo sulle pagine del proprio siterello personale, me ne infischierei del numero dei miei lettori e non proverei alcuna invidia per le – orrida parola, triste concetto – blogstar e non mi lamenterei delle gerarchie fittizie, perché lo scopo è tutto quanto lì, in quelle parole composte e condivise il più delle volte con spirito gratuito: esistere, ragionare, offrire competenze, dialogare, collaborare, leggere il mondo attraverso altri sguardi.
In poche parole, rimettere in movimento le fondamenta della società a partire dal proprio ombelico. E poi stare a vedere che cosa succede. Non mi sembra un’opportunità da poco.