In un vero salotto borghese che si rispetti, se dalla politica alla religione al calcio e relative decisioni arbitrali si finisce per parlare di un argomento veramente infido, per esempio carta e digitale, salta fuori l’odore della carta.
Per qualcuno è cosa serissima, per altri comica, ma il punto è che nessuno resta indifferente alla questione. E così funziona (o forse dovrebbe) quando la nozione si trasferisce dalla lettura alla scrittura: chi scrive per mestiere sviluppa una connessione profonda con il proprio sistema di scrittura e, in epoca digitale, questo riguarda sia la parte hardware che il software. Si può essere d’accordo o meno, mai indifferenti. Se uno scrive.
Premio fedeltà
La notizia è che uno scrittore di fantascienza, in un certo senso un appassionato di futuro, è fedele da ventisette anni a WordStar. E no, non è George Martin, di cui si è dato conto e neppure Sir Arthur C. Clarke. Si tratta di Robert J. Sawyer. Meno famoso, ma pur sempre vincitore dei prestigiosi premi Hugo e Nebula e anche in buona compagnia, secondo Ars Technica. Esistono milioni di persone che usano un programma vecchio decenni (Excel, nato nel 1985) e da allora continuamente aggiornato. Al contrario WordStar ha dalla propria solo il fascino dei vent’anni. Ovvero, è ancora quello di vent’anni fa.
Di sicuro è complesso. Offre prestazioni straordinarie a chi abbia percorso una curva di apprendimento dolorosa e abbia interiorizzato le sue arcane ricette di tastiera per arrivare in tempo rapidissimo al miglior risultato. Viene in mente emacs, come archetipo di tutta la categoria degli editor di testo che richiedono un lungo lavoro di cablaggio mentale. La lista è infinita ovviamente.
A quanti trovassero anacronistico il tema: interi settori professionali, se non lo richiedono, almeno suggeriscono una forte identificazione dell’atto di scrivere con un programma complesso per farlo (no, Word è bizantino e obeso; complesso è un’altra cosa). Leggere per credere Kieran Healy e la sua The Plain Person’s Guide to Plain Text Social Science.
Eppure la grande tendenza attuale è quella delle applicazioni per la scrittura distraction-free: via l’interfaccia, via la grafica, niente più che un foglio digitale bianco tra bordi rigorosamente neri, o il contrario, sulla falsariga di prodotti come Calmly Writer.
Ci sono più configurazioni ottimali per scrivere che varianti di ordine di un caffè al bar e indubbiamente ci sarà chi si esprime al meglio con lo schermo vuoto. La domanda è se quell’interiorizzazione e quel cablaggio mentale avvengano ugualmente o se un programma distraction-free o un altro siano, in fondo, la stessa cosa e manchi valore aggiunto sull’output.
Del che, importa a nessuno: quello che conta è il risultato. La sensazione è che, quale che sia l’ambito, e premesso che sono stati scritti capolavori umanistici così come scientifici anche con una biro, avvertire una connessione profonda con i propri strumenti di scrittura dia risultati più interessanti di quello che avviene quando un sistema vale l’altro.
Insomma, l’odore della carta è al più un argomento da conversazione. Il sentire la tastiera – in sintonia con il programma che viene pilotato – costituisce una nozione molto più conncreta e determinante.