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Lo vedi, a nascere in una società iperconnessa

02 Marzo 2011

Lo vedi, a nascere in una società iperconnessa

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Famiglie che condividono la propria esperienza in uno spazio inedito tra pubblico e privato, bimbi che twittano prima di saper parlare, parenti taggati nei video del parto. È il collasso delle categorie consuete o una nuova via alla produzione di senso?

In un’epoca caratterizzata da una stretta relazione fra dinamiche di comunicazione interpersonale e di massa ci sono momenti in cui l’evoluzione dei modi in cui comunichiamo noi stessi creano strappi, cesure, si mostrano per la loro differenza rispetto al passato. Da un punto di vista estetico ed etico. Uno dei luoghi in cui osservare questa dinamica è la coppia in quel momento di passaggio narrativo e costruzione della propria identità che è rappresentato dalla nascita di un figlio.

Famiglie taggate

Abbiamo assistito alla diffusione su YouTube di video che raccontano momenti intimi come quello in sala parto e ci siamo abituati ai racconti di coppie che hanno esplorato il loro stato di genitorialità accostando all’album di famiglia, con gli scatti fotografici più significativi della loro condizione mutata, gli album pubblici e condivisi su Flickr in cui parenti (spesso taggati), amici e conoscenti connessi hanno potuto commentare i micro eventi quotidiani (la poppata, il cambio dei pannolini). Il tutto in stretta relazione con un’idea del rapporto tra pubblico e privato della famiglia che ridefinisce i suoi confini rispetto a quella moderna che ci eravamo costruiti. È attraverso i modi che abbiamo di abitare la rete che queste pratiche si normalizzano, cominciano a essere considerate un modo del nostro racconto connesso, tra piccole polemiche che si spengono poco dopo e qualche allerta per le forme che riteniamo più forti, come ad esempio un video sul momento del parto.

Ma le possibilità espressive possono spingersi anche oltre, trasformando la narrazione oltre la dimensione metaforica di un racconto che abbiamo sempre fatto (fare foto e video) anche se diffondendolo in modi nuovi. È così che possiamo osservare in questi giorni il canale Twitter di un neonato – 12 giorni e una manciata di tweet per ora – gestito dai suoi genitori. Uno di questi è un blogger di provata esperienza, sgomberiamo quindi il campo immediatamente dal dubbio di scarsa capacità riflessiva e diamo per scontato la consapevolezza dell’agire e la volontà di costruire questo racconto. Anche se dovessimo pensarlo semplicemente come uno scherzo giocato alla comunità di amici in Rete, perché le risposte avute sono comunque identificative dei modi di pensare che abbiamo e proprio lì nel luogo in cui viviamo connessi gli uni agli altri. Così sappiamo che il bimbo viene allattato (dettagliatamente: Tommaso Nursed (6mn Left, 7mn Right), prende latte in polvere (Tommaso drank 20 ml of mellin 1), dorme (Tommaso slept (34mn) e via dicendo.

La consapevolezza del pupo

Eppure l’annuncio su FriendFeed non ha trovato solo i consensi degli amici del padre, ma ha dato vita a un dibattito acceso. Qualcuno scrive «poro regazzino madonna. Mai capito che gusto ci sia a rendere i propri figli estensioni dei propri profili sui social network. – Laura Fujiko» o «spero l’abbiate preso solo per presidiare il nomecognome e lo teniate vuoto per rispetto alla sua libertà di espressione. se a 15 anni scoprissi che mia madre ha twittato firmandosi me, m’incazzerei a bestia. – machedavvero». Ed è vero, oscilliamo fra il bisogno di comunicarci in un momento di cambiamento e felicità della nostra vita, come in questo caso, e i diritti (non solo digitali) del nuovo nato.

Finché, come nei linguaggi della modernità, tutto resta fra le mura domestiche (anche allargate), nella scrittura di quaderni che cercano di memorizzare i giorni e gli avvenimenti, nel conservare in scatole chiuse cordoni ombelicali e dentini da mostrare agli amici, nel produrre video e foto di bimbi intenti nelle loro deiezioni, tutto va bene. Ha a che fare con l’ambito della vita privata, con l’intimità che condividiamo in modo controllato con chi ci pare. Ma questi stessi modi di costruire la nostra memoria e di mostrarci quali forme assumono in un’epoca in cui la sovra-esposizione diventa spesso un modo normale di raccontarsi? E cosa accade nel momento in cui la nostra identità online viene costruita dai nostri genitori prima della nostra consapevolezza connessa?

Pubblico/privato

Alcuni pensano, in effetti, sia meglio la forma del blog, magari privato, come metodo di memorizzazione digitale di quei contenuti che una volta sparsi su supporti diversi: «Personalmente trovo un blog personale (su server privato) molto carina come idea (per mia figlia ho fatto così): alla lunga si stratifica il materiale e quando sarà grande avrà una traccia storica che noi non abbiamo mai avuto. Magari le farà schifo, magari le piacerà, ma intanto c’è. Sono contrario, invece, a pubblicare materiale sui social così, youtube compreso, che si arrogano diritti e proprietà che manco voglio a stare a discutere, quando sarà grande deciderà, intanto ha tutto privato. – Fearandil». Forse una differenza, allora, sta nei contenuti e nel senso che attribuiamo. Nel fatto che, ad esempio, questo sia, per ora, un diario asettico della quotidianità del neonato (dormire/mangiare), con qualche strizzatina d’occhio agli amici più intimi.

Perché allora “in pubblico”? Intanto va detto che è in pubblico in quanto pubblicato, ma non possiamo considerarlo come se fosse l’equivalente di uno spot passato sulle Reti Rai. Lo conosci perché il padre ne dà notizia nella sua rete – allargata, certo – di amici e quindi può arrivare anche a te. Ecco, è lì per i friend, per quello che oggi i friend sono – amicizie in senso molto allargato, dai lettori egli amici intimi senza soluzione di continuità– per chi nella sua vita professionale o di intrattenimento è esposto in una realtà semi-pubblica, quella della rete, dipendente dai vincoli imposti dai settaggi di privacy che creiamo. Ed è lì perché una nascita è una novità che vuoi urlare ai quattro venti e oggi non ti rendi nemmeno conto di quanta voce disponi essendo connesso: «qui c’è davvero qualcuno che trova sorprendente e sociopatico che due neogenitori siano così innamorati della loro creatura da volerla spammare in ogni dove? come se fosse una novità introdotta dall’internet? – thomas morton».

Una società confessionale?

Oppure ha semplicemente ragione Zigmunt Bauman quando scrive che «quella in cui viviamo è una società confessionale: una  società che si distingue per aver cancellato la linea che separava il privato dal pubblico e trasformato in virtù e in obbligo l’esibizione pubblica del privato, spazzando via dalla comunicazione pubblica tutto ciò che non si possa ridurre a confidenza privata e chiunque rifiuti di confidarsi». Ed è una visione che spesso serpeggia condivisa. Una visione corretta se pensiamo le cose come se fossimo ancora legati all’idea di “pubblico” della modernità e se vedessimo come una “confessione” ogni racconto privato che facciamo in pubblico. Oppure possiamo semplicemente pensare che la dimensione pubblica e privata sono collassate e che ci troviamo di fronte a un punto di non ritorno che chiede di rivedere le categorie attorno cui ragioniamo. E pensare, ad esempio, che anche la genitorialità viene vissuta sempre di più nelle forme della connessione perché anche in queste produce senso oggi, per lo stesso motivo per cui le tematiche riferite all’infertilità vengono riversate in blog personali e discusse in forum aperti.

La nostra abitudine a mettere pubblicamente a tema fatti anche privati dipende non solo dal fatto che la sovra-esposizione comunicativa rappresenta un cattivo costume dei tempi, ma una mutazione che ci porta a fare società in modi diversi.

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