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L’Iran e la straordinaria normalità di internet

15 Settembre 2010

L’Iran e la straordinaria normalità di internet

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Il mondo reale sta dentro il computer, dicono i giovani iraniani. Un social network spontaneo della voglia di libertà che rende il paese di Ahmadinejad uno dei laboratori più interessanti rispetto alle nuove dinamiche della cittadinanza

Jasmine ha lo sguardo acceso quando parla. Gesticola con lentezza e risponde con gentilezza alle domande che i molti passanti le fanno. «Lo sapete che una lingua tra le più diffuse fra i blogger è il Farsi?». Jasmine è una ragazza iraniana e studia in Italia. Sorride ai molti che si fermano sotto la tensostruttura dell’evento su Iran 2.0 al Festival Letteratura a Mantova. Attorno ai due monitor e ai ragazzi iraniani c’è sempre un piccolo capannello che guarda incuriosito i materiali contenuti nel canale YouTube dedicato che carica video che raccontano ai nostri connazionali la sensibilità di una cultura giovanile che sta dietro al movimento verde iraniano. Per costruire un racconto sui bisogni di normalità di una popolazione e mostrare che, in fondo, non siamo poi così distanti.

Movimento trasversale

Jasmine ascolta le domande inevitabili delle persone sulla green revolution e prova a chiarire che si tratta semplicemente di un movimento trasversale generazionale che ha posto l’attenzione sui diritti umani e che ha ribadito il diritto all’informazione. Evoluzione più che rivoluzione. Proviamo a considerare i seguenti fatti: il 70% della popolazione iraniana ha meno di trent’anni e se a questi aggiungiamo quelli che nel periodo della Rivoluzione del 1979 – che ha portato alla Repubblica islamica – erano piccoli, arriviamo circa all’80% degli abitanti del paese che non hanno vissuto consapevolmente il cambiamento: ci si sono trovati dentro. Sono molti, quindi, i giovani che abitano una realtà in cui si vive una sorta di doppia morale che distingue fra comportamenti pubblici e privati in un modo che può provocare una specie di scissione nella persona. «Da bambini i genitori insegnano ai figli a mentire», racconta il giornalista esule iraniano Ahmad Rafat. All’interno delle mura domestiche i giovani si incontrano, ascoltano musica occidentale, bevono birra e le ragazze abbandonano lo chador. La morale pubblica è diversa: polsi, caviglie e mento devono essere ben coperte e i racconti di quel che avviene nelle abitazioni viene taciuto. «Il movimento verde non è ideologico: contiene dai monarchici all’estrema sinistra. Piuttosto sostiene le richieste dei giovani di una vita diversa: dal diritto di vestirsi come gli pare a quello di camminare per strada mano nella mano».

Ascolto il racconto su una ragazza che è stata arrestata ed è morta in carcere perché è stata vista su una panchina mano nella mano con quello che era il suo fidanzato ufficiale e che avrebbe sposato dopo un mese. Suicidio, come sostiene il governo, o meno, come dice la famiglia, non è questo il punto: frustrazione e umiliazione sono una condizione diffusa nei giovani, mi testimoniano alcuni ragazzi. Eppure Jasmine racconta che lei a Teheran non esce tutta coperta, che vela solo i capelli, e che ogni anno i vestiti fasciano un po’ di più il corpo e il velo si sposta un po’ più su mostrando ciocche di capelli. Una signora che è stata in Iran recentemente mi racconta di essere stata fermata per strada da una ragazza che le ha mostrato il contenuto della sua borsetta: «Voleva farmi vedere che dentro c’erano le stesse cose che mettiamo noi: smalto, rossetto, forbicine, cellulare». È la normalità di essere ragazzi a Teheran che questi giovani vogliono raccontarci. Una voglia di normalità che trova nella Rete una sua cittadinanza.

Conversazioni sulla realtà

Blog e social network, siti Internet e mondi online, sono il luogo in cui spesso la doppia morale può essere dissolta, in cui le conversazioni sulla realtà che li circonda possono essere affrontate “pubblicamente” anche se nelle nicchie di questo privato in pubblico: «Quando accendo il computer entro nel mondo reale», scrive un giovane iraniano sulla pagina Facebook di Ahmad Rafat. Sono più di 150.000 i blog in lingua Farsi – è la terza lingua dopo cinese e inglese usata nei blog di tutto il mondo – senza tener conto di quanti scrivono in inglese per aprirsi al resto del mondo. Intrattenimento e informazione passano dalla rete e le pratica di “residenza” e diffusione di contenuti sono molto evidenti. I ragazzi scaricano programmi che gli permettono di aggirare i filtri del regime ai siti. L’attività dei subbers è elevata: i film occidentali vengono sottotitolati con estrema rapidità e fatti circolare sia in rete che attraverso i Dvd. Le radio web resistono generando ogni mattina un indirizzo diverso da cui essere ascoltate per poi finire nella blacklist del governo. E la rete è il luogo in cui la dimensione espressiva di questi giovani trova residenza. Come scrivono nei foglietti che vengono distribuiti per comunicare la loro presenza al Festival:

L’Iran dei nostri giorni è un paese pieno di vita. I giovani discutono, si confrontano con passione sui destini del proprio paese, vivono guardando al mondo. In una realtà in cui le attività artistiche e il dissenso politico
sono sempre più costretti alla clandestinità, è sul web 2.0 – l’internet dei blog, dei social network, della partecipazione attiva degli utenti – che trovano spazio pubblico le voci, gli scritti e le musiche delle nuove generazioni.

Cittadini giornalisti

È qui, sul Web, che i bisogni di informazione e di intrattenimento, di incontro e confronto, trovano una residenza. E la necessità di far sapere al mondo, di raccontare il proprio punto di vista, è quello che, secondo Jasmine, ha portato tanti giovani a testimoniare attraverso la rete cosa accade in Iran. Infatti la molla è scattata quando i giornalisti stranieri sono stati allontanati nel giugno dello scorso anno durante le elezioni presidenziali iraniane che hanno proclamato Mahmoud Ahmadinejad presidente dell’Iran e sono cominciate le proteste di sospetti brogli da parte dei sostenitori del candidato riformatore Mir Hussein Moussavi. Ma la rivoluzione di Twitter, come è stata definita, non è secondo Jasmine l’espressione politica di un fermento rivoluzionario ma piuttosto l’affermazione di un principio: «Abbiamo il diritto ad informare, per questo siamo diventati tutti giornalisti». È qui che il citizen journalism si connette con la cittadinanza attiva, con una lotta sui diritti civili: esplode come protesta elettorale ma ha radici profonde nei bisogni culturali e di libertà di espressione.

Mi dice Jasmine, prima che io mi allontani perdendomi nel flusso delle migliaia di partecipanti al Festival: «Tanto dolore ha avuto un risvolto positivo. Nella tragedia e nel sangue è emersa un’accelerazione della voglia di libertà e di discussione sul nostro futuro. Si sono rotti molti tabù. E oggi voi non potete dire di non sapere».

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