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Linux tra grande industria e codice proprietario

24 Gennaio 2001

Linux tra grande industria e codice proprietario

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IBM vuole il supercomputer e i distributori sfornano software commerciale: cosa succede all'open source?

Il colosso IBM si appresta a creare il supercomputer Linux più veloce del mondo, in collaborazione con il National Center for Supercomputing Applications presso la University of Illinois di Champaign. E Caldera annuncia il lancio della prima applicazione basata su codice proprietario, Volution, grazie alla quale è possibile ridurre i costi di installazione e gestione di Linux. Due notizie che sembrano voler spingere l’open source verso orizzonti imprevisti, dalle manie di grandezza dell’industria informatica alle procedure tradizional-commerciali di una pura azienda Linux. Segno di burrasche in arrivo per il pinguino del 2001?

A fronte di una crescente richiesta per macchine ultra-rapide e iper-potenti, ecco che IBM e il National Center for Supercomputing Applications di Champaign hanno messo insieme le energie per realizzare il supercomputer Linux più veloce del mondo. NCSA ha già installato due cluster comprendenti oltre 600 server IBM xSeries che girano su Linux, con network d’interconnessione basato su Myrinet. A febbraio sarà la volta dei Global Services di IBM, che sistemerà un primo cluster composto da una serie di server leggeri x330, ciascuno dei quali dotato di due processori Intel Pentium III da 1 GHz che girano su Red Hat Linux. Un secondo cluster, stavolta dotato della versione Turbolinux, verrà installato in estate, e sarà uno dei primi ad utilizzare i nuovi chip a 64-bit di prossima generazione di Intel, l’atteso Itanium.

Il progetto calza a pennello per NCSA e l’annessa National Computational Science Alliance, il cui direttore si dice più che convinto dell’iniziativa. Ciò perché a suo dire i cluster Linux sono in grado di fornire un unico ambiente di facile utilizzo che può applicarsi indifferentemente alle workstation per utenti singoli, alle macchine impiegate nell’ambito della ricerca e ai grandi sistemi a livello di terabyte. Precisa lo stesso direttore del NCSA: “l’esplosione della comunità open source, la maturità raggiunta dal software per i cluster e l’entusiasmo del mondo scientifico dimostrano che i cluster Linux rappresentano il futuro di quell’informatica che necessita di prestazioni assai elevate.”

Da parte di IBM, si tratta dell’estensione di precedenti incursioni nel settore dei supercomputer. Lo scorso anno aveva curato il progetto Los Lobos presso l’High Performance Computing Center della University of New Mexico di Albuquerque. Nell’occasione Big Blue aveva messo a punto un cluster di 512 nodi, con 256 server Netfinity sempre basati su Linux. Da notare che recentemente tale sistema è stato classificato al primo posto tra i 500 supercomputer tuttora operanti negli Stati Uniti, e Los Lobos è in testa all’elenco per quanto concerne i cluster Linux.

Un ulteriore passo avanti dell’open source nella grande industria che fa però storcere il naso a più di qualcuno. Insieme alla possibilità sempre presente di interventi diretti e finanche di “cooptazione” da parte di Microsoft, queste massicce operazioni dei colossi informatici rischiano di pesare fin troppo sulle spalle del sistema open source. Pur a fronte di continue testimonianze di agilità e leggerezza, dai sistemi embedded ai palmari e laptop, un’eccessiva enfasi sulle capacità di Linux nell’ambito dei supercomputer potrebbe rivelarsi l’ennesima appropriazione indebita. O come si legge in qualche forum online, potrebbe verificarsi una sorta di “dirottamento” delle energie e potenzialità di Linux verso obiettivi guidati dai giganti industriali, prestandosi alla fin fine ad appoggiarne le attività magari a scapito del lavoro collettivo e/o di altri fronti meno convenzionali.

D’altronde anche la recente mossa di un’azienda del giro Linux, Caldera Systems, offre spunti di riflessione sul futuro cammino del sistema alternativo. Volution, soluzione destinata agli amministratori di sistema per ridurne notevolmente i costi di installazione e gestione di migliaia di sistemi Linux, è stata messa in commercio da poco alla cifra di tremila dollari per 10 workstation o server, mentre ogni licenza aggiuntiva costa 150 dollari. Si tratta quindi di un passo che va nella direzione del mercato commerciale più tradizionale, manovra che riflette il trend in crescita tra i distributori Linux nella messa a punto di software proprietario in quanto tentativo di differenziarsi (e imporsi).

Come spiegano gli esperti del Gartner Group, oggi chi si occupa di programmazione Linux mira con sempre maggior forza al mondo del business, piuttosto che alla comunità open source. “La realizzazione di software personalizzato è un’arma potente nelle mani di aziende Linux che si occupano ad esempio di ambienti cluster. Non conviene rendere di pubblico dominio questi lavori. Quanto prima quell’algoritmo verrà usato da parecchi clienti, pur non essendo open source. È il caso di diffonderlo rapidamente in quanto tale? Il buon senso commerciale dice di no.”

Rincara la dose il portavoce di Caldera, sostenendo che quest’ultima si è sempre dedicata a “Linux per il business”. E in fondo adesso si tratta di nient’altro che procedere all’unificazione di “Unix con Linux per il business, e il nostro interesse è stato sempre quello di colmare il gap tra Linux e il mondo commerciale.” Volution include comunque alcuni moduli open source e altri ne verranno rilasciati in futuro sotto l’omonima licenza.
A scanso di equivoci, va detto che Caldera non è certo il primo distributore a far pagare delle licenze per applicazioni Linux. Ad esempio, TurboLinux Cluster Server 6 viene commercializzato al prezzo di duemila dollari per 10 nodi. E lo stesso dicasi per quegli sviluppatori e società che si occupano di creare versioni Linux di applicazioni locali.

Tutto sommato, quindi, c’è poco da scandalizzarsi. Ognuna delle numerose Linux dovrà pur trovare il modo di ottenere dei ritorni dal proprio lavoro. Soprattutto ora che il mercato offre orizzonti sempre più vasti a chi opera nel settore business. Il punto semmai rimane la ricerca dell’equilibrio tra grande industria e purismo collettivo. Ovvero, tra l’impegno dei programmatori d’ogni parte del globo nel miglioramento del kernel e quant’altro da una parte e dall’altra la necessità dei distributori di prosperare realizzando applicazioni ad hoc per una vasta clientela commerciale. Un equilibrio fluido ma vitale, da mantenere a tutti i costi.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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