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Linux illegale? Ma per favore…

21 Maggio 2003

Linux illegale? Ma per favore…

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Panico generale: SCO denuncia Linux perché conterrebbe parti di codice che le appartengono, ergo Linux è illegale e tutti coloro che lo usano devono smettere subito. O è SCO che la deve smettere di dire stupidaggini?

Il 12 maggio scorso, SCO (la società che detiene i diritti di Unix) ha diffuso un comunicato e inviato oltre un migliaio di lettere ad altrettanti utenti commerciali di Linux, avvisandoli di avere prove del fatto che il kernel di Linux contiene parti di codice copiate dal suo Unix e che pertanto distribuire e utilizzare Linux è illegale.

Nel panico risultante che ha investito sia la comunità di sviluppo di Linux, sia le numerosissime società che usano Linux quotidianamente, sono fioccati i compiaciuti “te l’avevo detto” dei detrattori dell’open source e gli amareggiati “non poteva durare” di chi era entusiasta del successo del software libero. In realtà il commento più consono all’iniziativa SCO è “Che cosa si sono fumati?”.

I primi segni di squilibrio di SCO, infatti, sono nel suo stesso comunicato: “per analogia con le iniziative in corso nell’industria musicale, siamo pronti a compiere ogni azione necessaria per far cessare la perdurante violazione dei nostri diritti di proprietà intellettuale e di altro genere”. Ahi ahi, che accostamento infelice, quello all’industria del disco, visti i suoi risultati patetici nel settore della difesa dei diritti musicali e soprattutto l’impopolarità che è derivata dalle tattiche grossolane e punitive adottate verso i clienti onesti (sistemi “anticopia” e balzelli sui CD vergini in testa).

Se SCO voleva far imbestialire i propri potenziali clienti, insomma, non poteva scegliere un accostamento migliore. Non crederà certo che dopo averli trattati a pesci in faccia in questo modo correranno da lei a comperare il suo Unix per rimpiazzare Linux.

Pirati e pinguini

Un’ulteriore conferma dell’assenza di qualche rotella in casa SCO è il fatto che l’azienda è essa stessa distributrice di Linux e ha numerosi clienti con contratti di assistenza pluriennali per questo sistema operativo. Di conseguenza, SCO si sta autoaccusando di aver fornito software illegale ai propri clienti e si trova quindi costretta per contratto a fornire assistenza ai suoi clienti per un software “pirata”. SCO si è quindi tirata la proverbiale zappa sui piedi (per non usare espressioni più calzanti ma troppo colorite).

E adesso come la mettiamo, si staranno chiedendo quei clienti che si sono fidati dei consigli entusiasti riguardo Linux che SCO elargiva fino a poco tempo fa. Le FAQ in proposito di SCO dicono che l’azienda continuerà ad onorare gli impegni Linux già presi (pur dicendo che Linux è illegale), ma non ne prenderà con nuovi clienti fino a quando si risolve il caso. Il che è un po’ come un marito che crede di mettersi a posto confessando alla moglie che l’ha tradita, ma che d’ora in poi la tradirà soltanto con le amanti con le quali l’ha già cornificata.

La saga delle incoerenze non è finita. SCO non solo ha distribuito e consigliato Linux fino all’altroieri, ma è anche membro del consorzio di standardizzazione United Linux insieme a Conectiva, SuSE e Turbolinux. Accusare Linux di contenere codice “piratato” significa accusare di concorso in pirateria i propri partner. Eppure le FAQ di SCO dicono che l’azienda continuerà ad onorare i propri impegni anche con United Linux. Come ci riuscirà è un vero enigma che sarà interessante vederle risolvere. Sempre che i suoi partner la facciano sedere ancora al loro tavolo, dopo questa coltellata alle spalle.

Conseguenze pratiche?

Ma che cosa comporta per l’utente finale questo pasticcio? Per il momento, l’utente comune, lo smanettone domestico insomma, non ha granché da temere: il comunicato SCO parla esplicitamente di “utenti Linux commerciali”, anche se in linea di principio la “SCO-munica” di Linux, se vale, vale per tutti gli utenti, grandi e piccoli.

Il vero problema è quello degli utenti commerciali che hanno adottato Linux come perno delle proprie attività. Ci sono colossi come Amazon.com, alcune case di produzione di Hollywood (come la DreamWorks), la British Petroleum, e tanti altri. C’è soprattutto IBM, attualmente il maggior sviluppatore di Linux del mondo, che sul sistema operativo open source ha basato il proprio rilancio. SCO ha già avviato una causa specifica anti-Linux contro Big Blue a marzo, chiedendole danni per un miliardo di dollari con l’accusa di aver causato la svalutazione della proprietà intellettuale di SCO.

Infatti IBM, secondo SCO, avrebbe introdotto nel codice di Linux idee tratte dallo Unix di SCO (per il quale IBM ha una licenza), e poiché Linux è liberamente distribuibile, gli utenti possono ora avere gratis quello che prima dovevano comperare da SCO. IBM, in sostanza, le avrebbe rovinato la piazza.

Naturalmente, prima che tutte queste accuse di SCO abbiano qualche efficacia legale devono essere provate: e i tempi di un processo si preannunciano lunghi. Per dimostrare che Linux contiene codice rubato, SCO infatti deve ovviamente mostrare il proprio codice corrispondente, cosa che comprometterebbe la segretezza della sua proprietà intellettuale, che SCO custodisce gelosamente. Si parla già di risolvere il dilemma ricorrendo a una commissione di esperti vincolati al segreto, ma è chiaro che è un iter complicatissimo, e nel frattempo vale la presunzione d’innocenza.

Tutto come prima, niente come prima

In attesa della risoluzione del caso, dunque, formalmente tutto va avanti come prima. Il vero problema è che la semplice accusa, pur non ancora provata, è sufficiente a far esitare i manager che devono pianificare il software aziendale per gli anni a venire, rendendoli molto riluttanti ad adottare Linux di fronte al rischio di trovarsi su un binario morto. Con o senza processo, si tratta di un colpo duro agli entusiasmi per la crescente diffusione commerciale di Linux.

C’è anche chi obietta che a lungo termine il problema della legalità di Linux in realtà non si pone, perché se a fine processo risulta che il suo kernel contiene codice copiato illegalmente, la comunità Linux non farà altro che rimboccarsi le maniche e riscriverlo. Basta che SCO indichi quali sono le parti da modificare.

Proprio qui sta il problema: indicarle pubblicamente significherebbe ancora una volta rivelare i propri segreti, e SCO potrebbe semplicemente rifiutarsi di farlo se non dietro accordi di riservatezza incompatibili con lo sviluppo aperto di Linux, che verrebbe pertanto paralizzato.

Punto di svolta

Tuttavia l’accusa di SCO potrebbe sciogliersi come neve al sole ancor prima di arrivare al confronto dei codici in tribunale. La licenza GPL sotto la quale viene distribuito Linux, infatti, dice chiaramente che chi distribuisce Linux concede agli utenti pieni diritti (compresa la proprietà intellettuale) sul codice sorgente delle opere derivate. E SCO ha distribuito Linux: pertanto ha automaticamente rinunciato a ogni diritto di controllo sul codice contenuto in Linux, comprese le eventuali parti copiate.

In altre parole, SCO avrebbe dovuto pensarci prima: ora è troppo tardi. Avrebbe dovuto esaminare il codice di Linux (cosa oltremodo facile, essendo pubblico) prima di distribuirlo: allora sì che avrebbe potuto rivendicare diritti sulle parti di codice incriminate. Se davvero Linux contiene codice SCO copiato, ormai quel codice non è più di SCO, perché SCO ha distribuito Linux.

Un teorema decisamente interessante, che però poggia su un assunto tutto da dimostrare. La GPL è venerata dai linuxiani come una sorta di versione laica delle Tavole della Legge, ma il fatto è che non è mai stata messa seriamente alla prova in tribunale. Può benissimo darsi che un esperto in materia di proprietà intellettuale vi trovi delle falle, rendendo vana questa tattica di difesa del software libero. E questo sarebbe un disastro di portata ben più ampia della crisi momentanea scatenata da SCO: crollerebbe l’intero movimento open source.

Ma può darsi invece che la GPL regga alla sfida: e se così fosse, riceverebbe una patente di validità impagabile, trasformandosi da un manifesto per smanettoni in un contratto vincolante a tutti gli effetti e dando al software libero le stesse garanzie di credibilità e legalità di cui gode ora il software “tradizionale”. Pertanto, qualunque ne sia l’esito, se il processo mette alla prova la GPL costituirà un punto di svolta nella storia del software.

Arriva la cavalleria

Anche se vedere la GPL trionfare in tribunale sarebbe spettacolare, è assai improbabile che capiterà. Non perché temo che la GPL non regga l’assalto di un’orda famelica di avvocati, ma perché difficilmente si arriverà al processo.

L’intera isterica vicenda di SCO ha infatti un’altra interpretazione possibile: invece di dimostrare che SCO è in preda al delirio, la rivendicazione della paternità su pezzi di Linux potrebbe essere un astuto bluff commerciale.

Come segnalato da Kevin McIsaac del Meta Group, ” SCO oggi è l’ombra di se stessa”: finanziariamente non naviga in acque molto felici da alcuni anni, per cui c’è da aspettarsi che ricorra a ogni espediente che le consenta di vendere al meglio quel che ancora le resta. La manovra anti-Linux potrebbe essere uno di questi espedienti, sia pure un po’ disperato. A proposito dell’iniziativa anti-Linux, McIsaac commenta infatti che “questo è il genere di cose che si fa quando non si ha più molta scelta”.

L’ipotesi del bluff sembra essere confermata anche dal venerato Gartner Group. Un suo rapporto sulla causa SCO-IBM, infatti, dice esplicitamente che “se IBM risulta essere in violazione, potrà scegliere se raggiungere un accordo di compensazione economica oppure comperare in blocco SCO” per farla star zitta.

Ma SCO non interessa granché a IBM, e quindi secondo Gartner IBM preferirebbe la prima ipotesi, mentre SCO desidererebbe la seconda. La causa SCO-IBM sarebbe quindi semplicemente “un modo per rendere SCO un bersaglio di acquisizione più appetibile”.

È abbastanza ovvio che anche l’iniziativa anti-Linux di SCO ha questo effetto di aumentare l’appetibilità: dà a IBM un ottimo motivo in più per l’acquisto in blocco della società. Infatti in questo modo IBM chiuderebbe non solo la questione dei diritti su Unix, ma anche quella sui diritti di Linux, e avrebbe pertanto le mani libere per dedicarsi allo sviluppo del suo business basato sul sistema operativo del pinguino. Il fatto che SCO pubblichi il rapporto Gartner sul proprio sito sembra essere un suggerimento non troppo subliminale, caso mai non si fosse capita l’antifona.

Se le cose stanno così, l’effetto dell’iniziativa SCO sullo sviluppo di Linux sarebbe sostanzialmente nullo: si andrebbe avanti come prima, anche se l’episodio dimostra comunque chiaramente quanto il codice open source sia vulnerabile alle accuse di plagio e di violazione dei brevetti, e lo sia più del codice “chiuso” (non pubblico) proprio perché può essere esaminato liberamente.

È ironico che sarebbe proprio un colosso commerciale come IBM a levare le castagne dal fuoco a tutta la comunità Linux. Come nel più classico dei cliché western, mentre gli eroi improvvisati tengono il fortino, in extremis arriverebbe l’ordinata cavalleria. Vestita, guarda caso, proprio di blu.

L'autore

  • Paolo Attivissimo
    Paolo Attivissimo (non è uno pseudonimo) è nato nel 1963 a York, Inghilterra. Ha vissuto a lungo in Italia e ora oscilla per lavoro fra Italia, Lussemburgo e Inghilterra. E' autore di numerosi bestseller Apogeo e editor del sito www.attivissimo.net.

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