C’era una volta il copyright. Poi arrivò la rete
Su queste pagine mi trovo spesso a parlare di copyright, di un diritto di fare copie che col tempo si fa sempre più anacronistico in un mondo in cui le copie di fatto non esistono più. Nella prima rivoluzione digitale, che ha visto entrare nelle case di tutti un PC e un masterizzatore, le copie hanno perso valore poiché fare una copia affidabile e precisa era diventata un’attività alla portata di tutti. Siamo passati poi alla fase del download, nella quale le copie delle opere venivano rese disponibili in rete e gli utenti le acquisivano (più o meno legalmente) per poi fruirne ed eventualmente conservarle.
Infine, con la diffusione massiva della banda larga anche su dispositivi mobili, gli utenti hanno mostrato sempre meno interesse nel possesso di una copia delle opere creative e una sempre maggior tendenza alla fruizione di opere attraverso la rete. Perché accumulare copie fisiche o digitali, quando le opere sono sempre accessibili attraverso una rete internet, su piattaforme a pagamento o ad accesso libero? È la fase che stiamo vivendo: quella dell’accesso, quella sempre connessi.
Non ci sono più i contratti di una volta
A ben vedere usciamo anche dal campo d’azione del copyright vero e proprio, inteso in senso etimologico di diritto di copia, dato che non avviene nemmeno un vero trasferimento di una copia dell’opera; essa tecnicamente risiede su un webserver e l’utente ne fruisce connettendosi o attraverso il browser web o attraverso un’apposita web app.
Questa modalità può riguardare qualsivoglia tipologia di opere: i video su YouTube, le foto su Instagram, la musica su Spotify. E può riguardare anche la fruizione di un’opera dell’ingegno di carattere funzionale come il software, che non mi serve più avere installato sulla mia macchina, perché è sufficiente lasciarlo su un server (tra l’altro con maggiore potenza di calcolo) e pilotarlo attraverso un normale browser web. Cloud computing, lo chiamano.
Anche i modelli contrattuali non sono più quelli classici del mondo del diritto d’autore; ci allontaniamo dai modelli della cessione dei diritti e della licenza d’uso e ci avviciniamo più ai contratti di fornitura di servizi. Infatti, per fruire delle opere online, agli utenti è richiesto normalmente di registrarsi e sottoscrivere i cosiddetti termini d’uso o termini di servizio: in sostanza un vero e proprio contratto tra il service provider e l’utente che regolamenta l’accesso alla piattaforma e alle opere in essa contenute.
Servizi globali, diritti locali
Il risvolto più delicato deve ancora arrivare. Dal momento che l’accesso all’opera e al servizio connesso avviene attraverso Internet, che per sua natura travalica i confini nazionali, si pone un inevitabile problema di legge applicabile e di giurisdizione. Si entra nel campo del diritto internazionale privato e ci si chiede anche a quale legislazione sia sottoposto il rapporto giuridico tra utente e service provider, nonché quale sia il giudice competente a dirimere un’eventuale controversia tra le parti.
Si apre così un delicatissimo vaso di Pandora di questioni giuridiche che pervadono la scienza giuridica fin dai primi anni della diffusione delle tecnologie telematiche su scala internazionale. Quale criterio è applicabile per individuare la legge applicabile? La sede legale del service provider, oppure la sede in cui sono posti fisicamente i server, oppure ancora la zona geografica in cui viene offerto il servizio?
Inoltre, il provider di un servizio offerto via Internet deve sottostare solo alle leggi del suo Paese o anche a quelle dei Paesi in cui offre il suo servizio, e in quale misura? È eventualmente possibile risolvere il problema attraverso una mera indicazione contrattuale che elegga una legislazione applicabile e un foro competente?
Com’è difficile armonizzare legge, contratto e privacy
La soluzione più agile e più comunemente applicata è indicare nei termini di servizio (quindi nel contratto tra il provider e l’utente) sia la legge applicabile sia il foro competente. Si lascia alla contrattazione privata la gestione dei rapporti giuridici nascenti sul web, ma tale soluzione non sempre è davvero risolutiva, perché deve poi di volta in volta confrontarsi con norme imperative nazionali che per loro natura non possono diventare facilmente derogabili attraverso una semplice previsione contrattuale; tra queste, non ultime, vi sono le norme sulla privacy (che sono indubbiamente diverse tra USA e Europa).
Come si può inoltre facilmente intuire, questa via, anche se non sempre risulta ottimale agli occhi dei giuristi, indubbiamente è quella preferita dai service provider, i quali tendono a impostare i termini di servizio in modo da tutelare il più possibile i loro interessi a scapito di quelli degli utenti. E più il service provider è grande e potente, più avrà la tendenza a imporre le sue regole senza particolari timori di essere contestato; se poi le statistiche confermano che solo una bassissima percentuale degli utenti legge davvero i termini d’uso prima di accettarli, il gioco è fatto.
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