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L’internet del 2010

04 Gennaio 2010

L’internet del 2010

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La rete è ormai entrata nelle nostre vite, ma non siamo ancora in grado di governarne al meglio la dimensione sociale. E mentre si fanno le prove tecniche di Web 3.0, quest'anno toccherà all'industria culturale affrontare il cambiamento di paradigma

L’anno scorso, in questo tradizionale articolo sospeso tra punto della situazione e piccola previsione, ragionavamo sulle prime evidenze di «scomparsa di internet dentro la realtà». Erano i mesi del boom di Facebook, che stava facilitando l’accesso al web sociale a una larga parte di popolazione che era rimasta, fino ad allora, fuori o ai margini della società digitale.

«Forse abbiamo appena passato o stiamo passando un’importante soglia di scala. Se l’hype dei media su Facebook dal punto di vista degli addetti ai lavori è semplicemente hype su Facebook, è anche vero che l’effetto è quello di trasportare verso il web sociale una bella quantità di persone che prima non lo frequentavano. Ma a leggere i giornali o a parlare con la gente, per strada o sul lavoro, internet non è più il territorio di una minoranza colta e pronta a sperimentare. »

Dodici mesi dopo

A dodici mesi di distanza ci rendiamo conto che tutto è andato abbastanza più in fretta di quanto si poteva sospettare. Dev’esserci stato, anche nella storia delle rete elettrica, un momento in cui la potenza e le impostazioni del network hanno finito di essere un problema e una passione degli ingegneri per diventare una questione importante per ridisegnare la vita degli altri e abilitare illuminzaione, lavatrici e televisione. Per molti di noi era chiarissimo che questo stava accadendo, ma ora comincia ad essere sotto gli occhi di tutti. Più negli effetti che nelle cause.

Non ci siamo ancora tutti, in rete, e forse in Italia siamo un po’ meno che altrove. Ma non è più necessario «essere in rete» per renderci conto che nella rete (o grazie alla rete) le cose accadono. Internet è ovunque: nelle notizie, sui giornali, nei telegiornali, nelle trasmissioni televisive, sui manifesti per strada. Buona parte di quello che accade o ci circonda è abilitato da internet, raccontato da internet, condiviso su internet, cercato via internet. Nella vita pubblica e in quella privata si passa sempre da internet. Non tutti abbiamo la stessa consapevolezza nell’usare la rete, non tutti frequentiamo le stesse porzioni di web (potremmo persino non incontrarci mai), ma nessuno oggi può ignorarne l’esistenza o sottovalutarne la portata.

Certo, ci sono ancora resistenze culturali, ma sono sempre più minoritarie: credo che restino capaci di ridimensionare la rete – qui da noi – solo acuni politici spaventati dal cambiamento e qualche nonna che non ha ancora imparato a mettere le ricette su YouTube. Gli altri, direttamente o per sentito dire ne percepiscono l’importanza. E cambiano i rifermenti culturali: in questo senso (e forse non solo in questo) Facebook è più mainstream di Bruno Vespa. E internet non è più quella cosa strana che appassionava un manipolo di geek, ma una presenza che entra in molte conversazioni di tutti e che spesso le segna. Una volta era la televisione, una volta era una cultura con canoni diversi.

Il problema della scala

La diffusione porta sempre con sè un grande mutamento nelle pratiche, nei comportamenti e nel modo di utilizzare gli strumenti. Sebbene mai esente da comportamenti idioti, la rete ha vissuto un periodo di crescita in cui l’influenza degli early adopter in qualche modo dava esempi e forniva con maggior facilità logiche di autoregolamentazione. Lo «sbarco» (per usare un termine caro ai cronisti) accelerato e in massa ovviamente ha fatto saltare a molti diversi passaggi di comprensione. Con l’aumento di scala ci siamo ritrovati con i gruppi ingenui a favore della mafia, con i tifosi del signore che ha lanciato il Duomo in faccia a Berlusconi, persino con i tifosi della donna che ha fatto cadere il Papa. Nulla che non accadesse anche prima, nelle piazze e nei bar o anche nei gruppi usenet della prima ora, ma oggi tutto questo è illuminato da una dimensione pubblica che socialmente non siamo abituati a governare. I media di massa (ora che internet è il posto che i giornalisti adorano per raccontare le masse) non possono non evidenziare e non cercare ciò che fa notizia in questo enorme spazio condiviso.

C’è anche un principio di responsabilità nella potenza del mezzo, e non tutti siamo educati ad utilizzarlo. L’effetto più importante che continueremo a vedere mel corso del 2010, probabilmente, sarà innescato da questa inesperienza diffusa e dalla corsa a raccontarla. E la rete tenderà sempre più ad assomigliare al mondo di fuori. Tanto che potremmo parafrasare una battuta di Ben Jelloun («I mezzi pubblici non ti aiutano ad amare il tuo prossimo») e temere l’evidenza degli aspetti negativi che fanno notizia, mentre la crescita silenziosa di milioni di persone rischia di passare facilmente inosservata. Se, direbbe Seth Godin, siamo alla fase dell’innovazione in cui i burocrati banalizzano il mezzo, il racconto pubblico che emergerà sarà quello su cui si costruirà l’interpretazione che ne daranno. I primi segnali li abbiamo già avuti con i gruppi di Facebook e – come giustamente osserva Massimo Mantellini – è forte il rischio che si piloti l’autoregolamentazione, magari con tavoli chiusi e propositi non eccessivamente da bene pubblico.

Una questione di responsabilità

Per come la vedo io, l’unica alternativa al tavolo chiuso è e rimane soprattutto un problema di educazione. Nostra prima che degli altri, perchè chi racconta la Rete come giornalista ha la responsabilità di fare una corretta divulgazione, e chi ha visibilità all’interno della rete – anche solo per pochi amici – ha la responsabilità di dare l’esempio. Dovremo sempre più imparare a cercare la nostra posizione, a distinguere le conversazioni in cui «parlano con noi» (con il nostro registro, con i nostri interessi) da quelle che si svolgono per altri e tra altri. Il fatto di essere tutti nello stesso social network non significa che stiamo per forza dialogando o parlando della stessa cosa. Dovremo imparare a capire che le persone che scegliamo di seguire (i blog che leggiamo, i giornali da cui ci informiamo, le persone cui ci iscriviamo nei siti sociali) ci daranno la nostra esperienza del medium. E che se troviamo qualcosa di noioso o di impreciso siamo noi che abbiamo sbagliato la scelta, non è lo strumento che delude.

Ma sono solo alcuni banali esempi di un elenco che sarebbe lungo. La rete espone alla diversità e dobbiamo imparare a trattarla e gestirla in modo adeguato. A un livello più ampio, e forse più sensibile, dobbiamo imparare (anche qui, socialmente, in maniera diffusa) a gestire la dimensione pubblica e privata in uno strumento che tende a penalizzare il privato se usato senza accortezza. Dobbiamo educarci ad utilizzare un ambiente potente, che tende ad assomigliare al tavolino del bar ma che non è affatto il tavolino del bar. Dobbiamo cominciare a capire che il grillismo, il qualunquismo e il generico attacchismo fanno accessi e popolarità sul breve ma danneggiano tutti sul medio e sul lungo periodo. La rete, ce lo raccontano i processi che ci hanno portato qui (e non potrebbe essere altrimenti), premia chi sa costruire e dimentica in fretta chi sa solo criticare, distruggere o sparare a zero.

Alimentare la spinta

È un quadro difficile quello che ci vorrebbe per alimentare la spinta. Idilliaco, magari. Ma non c’è alternativa: la percezione che avremo di Internet assomiglierà sempre meno a questioni tecniche e a una comprensione della complessità. Mentre assomiglierà sempre più a una società e una cultura che si esprimono per quello che sono, attraverso uno strumento che lo consente. Da questo punto di vista, ancora una volta, avremo l’internet che ci meritiamo. Ma non è un passaggio da sottovalutare, almeno in Italia (paese che utilizza i network relativamente poco, ma sempre più di quanto li abbia assimilati culturalmente): l’idea della rete che si creerà in questo periodo più o meno lungo a venire sarà determinante nel ridurre o amplificare il ritardo italiano.

Una percezione positiva potrebbe facilmente spingere verso nuove adozioni, verso circoli virtuosi, leggi non vessatorie, maggiori aperture, maggiori investimenti. Al contrario, una percezione negativa potrebbe portare a limiti e strette che solo la creatività dell’attuale classe dirigente può immaginare. È un apparente paradosso, ma in Italia in questo momento il racconto che si fa di internet vale più di qualsiasi innovazione tecnica dentro internet. E partiamo ad handicap perchè l’esempio di comportamento peggiore, qui da noi, lo danno politici, giornali e televisione. Se la rissa sembrerà normale a tutti, internet sarà l’apoteosi della rissa. C’è poco da fare, ma quel poco dobbiamo provare a farlo noi, nel nostro piccolo. Perchè tanti piccoli esempi fanno cultura. E, certo, perchè gridare a internet come bene pubblico o – addirittura – come candidato al Nobel per la Pace non ci esime dal fare la nostra parte. Cosa che assomiglia un po’ alla vecchia storia della bicicletta e della necessità di pedalare.

Alla ricerca del contesto

Al di là dello scenario generale, da cui però molto dipende, credo che i trend principali riguarderanno più l’impatto sull’esterno che non il web in sè (territorio ormai di rinnovamento più che di innovazione). Si amplificheranno i tentativi di riuscire a controllare il contesto oltre che il testo, come per esempio sta facendo Google con le news o con la ricerca real-time. Qualcuno annuncia già che se il web 2.0 era tutto social, il web 3.0 sarà costruito sulla connessione tra testo e contesto. Ma a mio parere è ancora troppo presto per avere qualche novità in grado di ridisegnare seriamente la topografia e le modalità di utilizzo della rete. Anche se, ovviamente, sarei felice di sbagliarmi.

Sicuramente in quest’anno appena entrato aumenterà sensibilmente il peso del mobile, che è una buona chiave strategica anche per la diffusione della cultura digitale. Uno degli effetti collaterali della diffusione di Facebook è stato l’accesso al social network facilitato anche su telefoni cellulari di fascia media e bassa. E se la diffusione dell’iPhone in molti mercati è intorno al 200% annuo, la concorrenza porterà a prezzi più accessibili e maggiore diffusione anche dei device di fascia più alta. Poi c’è il grande mistero del tablet di Apple, incognita concettuale su cui molti scommettono.

L’industria culturale

La transizione verso il digitale sta ridisegnando l’industria culturale. Se al cambiamento di paradigma nella musica siamo ormai abituati e se la crisi del giornalismo su carta non fa più notizia, questo sarà l’anno in cui ci abitueremo a un nuovo concetto per pensare i libri. Con tutti gli annessi e i connessi, incluso il cambiamento del ruolo dell’editore e di quello dell’autore (cos’è un libro oggi, esattamente?). Nel caso dei libri, in particolare, i lettori elettronici colmano un vuoto che il web aveva da sempre: la lettura e la diffusione dei testi lunghi. Questo potrebbe facilmente significare che – non essendoci nell’ebook vincoli di lunghezza minima – un testo troppo esteso per stare in una pagina web con scroll ragionevole finisca naturalmente per essere un ebook e magari avere un prezzo – anche minimo – e un canale di vendita. Non ci sono facili previsioni: il passaggio al digitale di prodotti dell’ingegno che erano tradizionalmente vincolati al loro supporto è una bella sfida, per nulla vicina alla conclusione e da seguire con attenzione.

L'autore

  • Giuseppe Granieri
    Autore, docente ed esperto di comunicazione e cultura digitale.
    Il suo bookcafe.net, fondato nel 1996, è stato uno dei primi siti letterari e blog italiani. Ha collaborato con testate come Il Sole 24 Ore, l’Espresso, La Stampa e firmato diversi saggi per l'editore Laterza.

    Foto: Enrico Sola.

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