Grazie a due fattori (l’aumento di scala delle persone connesse e la disponibilità di strumenti, tutti sociali, ma diversi come grammatica) stiamo assistendo a un mutamento abbastanza sensibile sia di quella che un tempo chiamavamo “topografia della rete”, sia dei processi sociali e di relazione cui eravamo abituati. Non è facile tracciare un quadro generale, sebbene vi siano alcuni segnali, più problematici che solutori. Alcuni hanno osservato come si stia rilevando una riduzione della partecipazione nei blog o una (sana) diminuzione dell’attenzione verso classifiche come Blogbabel. Altri, come Fabio Metitieri, hanno finito per sostenere che sia la morte del blog o di una certo modo di pensare il blog, legato e collegato al concetto di “grande conversazione”.
Nei fatti, quello che sta succedendo è abbastanza semplice. Nei primi anni 2000 la parte abitata della rete (o il web sociale, come vogliamo chiamarlo) ha scoperto se stesso nella blogosfera e nella nascita dei canali personali o in quello che alcuni chiamano user generated content. Fino al 2003/2004 avevamo solo (o soprattutto) i blog e attraverso i blog facevamo passare tutte le nostre interazioni e le nostre necessità relazionali. Poi, con il tempo, l’offerta di soluzioni è aumentata: dalle repository (come YouTube e Flickr) ai social network tematici (si pensi ad aNobii), a “ripetitori di stimoli” come FriendFeed, a strumenti di microblogging – qualsiasi cosa oggi significhi – come Twitter, ad ambienti polifunzionali diversissimi tra loro, come Facebook o Second Life – vere città nella città, in cui ciascuno trova il suo modo di utilizzare le opportunità.
Nel frattempo l’onda dell’adozione di massa ha superato i blog ed è arrivata sui social network mainstream, popolandoli e facendo entrare la rete sempre più nel linguaggio e nelle abitudini quotidane. Il concetto stesso di ambienti di rete mainstream è apparentemente un ossimoro per i pionieri che, per anni, hanno contrapposto le logiche di internet a quelle del mainstream (appunto), identificato con la televisione e i grandi gruppi editoriali. Ma, per buttarla semplicemente, quando tuo padre ti aggiunge su Facebook probabilmente devi aggiornare il tuo concetto di mainstream, anche perché molte trasmissioni di televisioni generaliste sono forse meno conosciute del popolare social network.
Ma se i fatti sono osservabili e visibili, l’interpretazione non è così lampante e scontata. Molte delle categorie interpretative che abbiamo usato in questi anni vanno aggiornate a una realtà veloce. A livello macro (se è ancora intellettualmente affrontabile un discorso a livello macro su Internet) io vedo alcune tendenze forti.
1. Specializzazione
Nel 2009 tenderemo probabilmente a specializzare sempre più l’uso del nostro tempo vitale online, attraverso le vocazioni degli strumenti, come già stiamo facendo oggi ripetto alla prima fase della blogosfera. Questa ipotesi spiega, ad esempio, lo spostamento di tutti i contenuti relazionali (che prima avevano forzatamente sede nei commenti dei blog o nelle conversazioni “via post”) verso strumenti più adatti (Twitter, Friendfeed, alcuni usi di Facebook). Anche se questo, per me, non significa la fine del blog, ma una sua maturità di vocazione: il blog tenderà, probabilmente, a essere il luogo dei contenuti editorializzati, del “racconto” di ciò che accade in altri ambienti di rete (si pensi ai numerosi blog di avatar di Second Life o di giocatori dei Mmorpg) o fuori dalla rete.
Fatta salva una parte della blogosfera (quella diaristica e intima) che è prevalentemente relazionale anche nei post, il contenuto di relazione (dal cazzeggio alla vicinanza emotiva) tenderà a spostarsi sempre più verso ambienti che, rispetto ai commenti di un blog, facilitano l’interazione con il tastino Publish, per costume interno e per (apparente) velocità di senescenza dei contenuti. E lo spostamento su diversi assi del tempo vitale finisce anche per spiegare la progressiva perdita di senso del ranking sui blog. Io non ho mai creduto alle classifiche, per svariate ragioni, ma è innegabile che esse fornissero ai blogger un feedback che costruiva parte della sensazione di appagamento, fondamentale per dedicare un investimento del proprio tempo vitale online come offline. Ora, anche nei casi più marcati (e meno sani) di dipendenza dalle classifiche si nota una certa riduzione dell’attenzione verso gli ex deifici: se le attività online e (di conseguenza) la nostra presenza non sono più solo rappresentabili attraverso il blog, il nostro appagamento non è più totalmente legato ad esso.
2. Frammentazione
Venendo dai media tradizionali già ci sembrava complicata e frammentata la conversazione quando cominciammo ad avere migliaia di blog. Oggi che la big conversation si svolge in una quantità di ambienti diversi è decisamente molto più frammentata di allora. E probabilmente richiede una dose superiore di information literacy per essere affrontata, poichè un modello di sintesi mi pare tecnicamente ancora lontano. La specializzazione degli ambienti, con funzioni spesso sovrapponibili (relazione, contenuto eccetera) potrebbe portare a porzioni di rete non necessariamente connesse con le altre. Già oggi Google (come motore di ricerca e di accesso) non regna sovrano se non su una parte di “web piano e aperto”. È una porzione enorme di dati, ma non necessariamente di società connessa. I motori di ricerca non sono in grado, ad esempio, di monitorare i social network giustamente chiusi per privacy (in cui però avviene parte della big conversation) o ambienti come Second Life, in cui pure succedono cose e crescono forme di conoscenza.
3. Normalità banale
Ho la sensazione che il 2009 sarà un anno di transizione, di chiusura di un ciclo, un po’ come i primi anni 2000 hanno chiuso il ciclo di Geocities e dei portali. Non è una sensazione basata su fatti tecnici, quanto su una serie di segnali deboli, di esigenze raccolte in giro, di osservazioni sentite un po’ qui e un po’ là. Soprattutto fuori dalla Rete. Io non sono mai stato preoccupato per il digital divide, perchè nella mia lettura della realtà lo consideravo (e lo considero) fisiologico: la televisione ci ha messo 36 anni per arrivare nelle case degli italiani e internet ci metterà molto meno. Di conseguenza sono stato sempre più preccupato per il “divide” culturale, quello che riguarda la capacità di orientarsi tra i nuovi strumenti e le nuove logiche sociali.
Ma mi pare che tutto corra più veloce di quanto prevedessimo pochi anni fa, soprattutto più veloce di quanto prevedessero i pessimisti. Ma anche più veloce di quanto prevedessi io. Il punto vero è che internet sta scomparendo dentro la realtà, sta diventando normale per molti e portando la normalità di molti nei suoi bit. Forse abbiamo appena passato o stiamo passando un’importante soglia di scala. Se l’hype dei media su Facebook dal punto di vista degli addetti ai lavori è semplicemente hype su Facebook, è anche vero che l’effetto è quello di trasportare verso il web sociale una bella quantità di persone che prima non lo frequentavano. Ma a leggere i giornali o a parlare con la gente, per strada o sul lavoro, internet non è più il territorio di una minoranza colta e pronta a sperimentare. Certo, il livello di consapevolezza a volte sfiora la superstizione, ma internet è nella vita di tutti i giorni di tantissime persone.
Prima o poi doveva succedere, lo auspicavamo da tempo. E questo significa o può significare molte cose: sarà abbastanza interessante vedere come cambieranno quelli che arrivano in rete oggi senza averne seguito da dentro il percorso. E sarà interessante osservare come si imposteranno le dinamiche sociali dopo i nuovi massicci innesti. E come cambierà internet.
4. La crisi e l’informazione
In rete, dato che i contenuti difficilmente si vendono, al momento ci sono tre modelli di business prevalente. Il primo è quello della raccolta pubblicitaria. Il secondo è l’ecommerce. Il terzo è quello di Linden Lab con Second Life, che vende terra e batte moneta. A senso, data la crisi, soffriranno un po’ tutti. Ma quelli che soffriranno di più potrebbero essere coloro che vivono sulla raccolta pubblicitaria. La crisi economica ha accelerato la crisi dei giornali, senza che la rete fosse pronta per un modello sostituitivo. Tanti potrebbero chiudere, per poi rinascere con equilibri diversi dopo la crisi. Certo, sarà più facile riaprire online. E, forse, dopo la bufera si sposteranno in rete più investimenti pubblicitari. Forse. Diciamo che il mio è più un augurio che una previsione, perchè di giornalismo vero abbiamo bisogno. E se i giornali chiudono, la rete attualmente non paga, o paga poco (come sa bene l’esercito di freelance che combatte per una collaborazione).
Una delle cose che scopriremo con il 2009, temo, è se il giornalismo come professione è in grado di mantenere tutti i giornalisti che lo hanno scelto come professione. I primi segnali dicono di no. E se i grandi editori non ne vengono a capo, gli anni successivi saranno perfino più crudeli.