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L’inevitabilità mediale come capro espiatorio

12 Ottobre 2010

L’inevitabilità mediale come capro espiatorio

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Dalla tragedia umana a quella mediatica, la nostra attenzione si sposta in continuazione alla ricerca di una spiegazione o di un colpevole. L'analisi di un caso che ha scosso l'Italia

La storia di Sarah Scazzi, scomparsa da fine agosto è purtroppo nota a tutti. L’abbiamo seguita con apprensione all’inizio e discontinuità poi, seguendo il ritmo della copertura mediale. La morte, però, non correva su Facebook come ha insistentemente immaginato Bruno Vespa quando ancora nella puntata del 4 ottobre sulla vicenda ha esordito dicendo che «i giovani si rifugiano in internet, che è un’insidia molto pericolosa». Invece non c’entravano Facebook, non c’entravano nemmeno i molti profili di Sarah gestiti anche dalle amiche, e tantomeno c’entravano i presunti innamoramenti nei social network con fughe annesse.

Il colpevole in diretta

Da audience prima distratta e poi sempre più coinvolta abbiamo appreso in diretta televisiva, durante una puntata di Chi l’ha visto?, che Sarah è morta e che il colpevole è lo zio. Noi, l’abbiamo visto. E non era Facebook, era la televisione. Così si potrebbe dire nel giocare media contro media, cultura neotelevisiva contro linguaggi della rete. Ma forse le cose sono più complesse di così quando ci troviamo davanti al dolore degli altri, in questa civiltà connessa e always on che vive in diretta tra istantaneità e immediatezza la profondità delle informazioni e il carico emotivo della loro personalizzazione. Una società che ha bisogno di nuovi s-oggetti per applicare il meccanismo del “capro espiatorio”. Proviamo a tratteggiare alcuni elementi di questa vicenda.

Anche la madre di Sarah l’ha saputo, come noi, in diretta, davanti ai nostri occhi. Occhi che guardavano il suo primo piano dal video della tv, il suo volto attonito, mentre la conduttrice Federica Sciarelli la informava in tempo reale di quello che si stava apprendendo in quel momento: la figlia era certamente morta, il corpo stava per essere ritrovato e lo zio – la diretta, in un quadro drammaturgico perfetto, avveniva proprio dalla casa di questi – era stato fermato reo confesso. 45 minuti di continuo racconto da quando la notizia era cominciata a circolare. Il dolore in diretta vale 15,29% di share (3.680.000 telespettatori) e molte critiche sparse sia nei media tradizionali (non solo in Italia), declinate nei moltissimi commenti a tutti i post che hanno ripercorso il racconto della puntata circolando ovunque in Rete. I toni sono più o meno questi:

mauro C.: Il cinismo con cui la signora Sciarelli ha condotto ieri sera il programma è davvero disgustoso. Era più importante la notizia da dare che il dolore di una madre che ha perso la figlia in questa maniera atroce. Veramente abominevole. Non capisco nemmeno l’utilità di restare collegati permanentemente con Casa Scazzi.A che cosa serve …..se non a fare spettacolo. Per la ricerca di quella povera ragazza sicuramente no. CHE SCHIFO !!!!!

Inevitabilità mediale

Il video che la Rai mette su YouTube (oltre 288.000 visualizzazioni) ha i commenti chiusi. Non potrebbe essere altrimenti, la vicenda è troppo controversa e il rischio di insulto alto. Il dibattito prosegue per giorni tra giornali, televisioni e Internet. Con le ragioni della Sciarelli raccontate al Tg di La7 di Enrico Mentana che riconducono alla funzione di servizio pubblico e parlamentari che, bipartisan, si dichiarano sconvolti e chiedono a viale Mazzini di pronunciarsi. Eppure c’è dell’inevitabilità mediale in tutta questa vicenda. Come racconta Aldo Grasso, critico per antonomasia della televisione nostrana:

Con le telecamere ormai accese 24 ore su 24, in una società organizzata attorno ai media, nella piena consapevolezza che ormai gli strumenti multimediali rappresentano il nuovo ambiente in cui viviamo, è inutile chiedersi se questo strazio collettivo in diretta andasse fermato o no. Da tempo viviamo nel post-Vermicino. Quando la Sciarelli si premura di dire alla mamma di Sarah, Concetta Serrano, se desidera interrompere il collegamento compie un gesto di estrema delicatezza, ma manda, contemporaneamente, un’indicazione linguistica: questo non è un reality, questa è tv verità.

Anche se, ascoltando le sue parole, senza la pulizia della scrittura, là dove il giudizio (e il pregiudizio) si esprime più direttamente sentiamo: «il giorno dopo la trasmissione “Chi l’ha visto?” monta lo sdegno, soprattutto su internet, sui blog… tutti a chiedersi se la pietas avrebbe dovuto fermare la trasmissione». Il giudizio della televisione, quindi, contro quello della Rete. E invece non è così. In questo Rete e mainstream media sono solidali. Si è trattato per tutti di un modo di violare il dolore privato, di costruire a tutti i costi l’evento mediale in diretta, di sfruttare la scarsità di capitale culturale della famiglia di Sarah per farne macchina da spettacolo. Questi sono i giudizi di chi commenta nell’ecosistema mediale nel suo complesso la vicenda. Poche le posizioni diverse. “Chi l’ha visto?” diventa all’improvviso il nuovo capro espiatorio sull’altare dei media – e dunque della società che si rappresenta nei media – quando fino a qualche giorno prima lo era stato Facebook.

Il capro espiatorio ultimo

È proprio questo il punto: rischiamo continuamente che la nostra attenzione si sposti dalla tragedia umana a quella mediale e di non essere più in grado di distinguere. Il capro espiatorio ultimo della nostra civiltà diventano i media. È stato, allora, o Facebook o la televisione. Troppo doloroso pensare che la follia sia dentro la famiglia, nelle pieghe della nostra responsabilità di adulti, di mariti, mogli, genitori, figli. Che la nostra attenzione la rivolgiamo altrove (i media) e dimentichiamo di guardare dentro le nostre dinamiche sociali più ristrette, in quel mondo vicino in cui si nascondono le pieghe della barbarie delle nostre vite. Non solo oggi il capro espiatorio è sempre più un prodotto dei media, ma il meccanismo è talmente radicalizzato da far sì che talvolta siano i media stessi a diventare il “capro”, la ragione ultima su cui veicolare le nostre colpe e, quindi, la nostra salvezza. I media diventano la vittima sacrificale, ciò che è contemporaneamente origine della crisi e responsabile di una pacificazione ritrovata. È questo il meccanismo del capro espiatorio parafrasando René Girard che ce ne racconta con acutezza origini e funzione sociale.

La costruzione mediale di un capro espiatorio nella nostra società è spesso attuata quando particolari sistemi sociali (la politica, l’economia, la religione eccetera) portano il conflitto a una crescita tale che necessita di uno “sfogo” da ottenere attraverso polarizzazioni comunicative: «Il Capro espiatorio designa simultaneamente l’innocenza delle vittime, la polarizzazione collettiva contro di esse e la finalità collettiva di questa polarizzazione». Per capirlo a fondo forse potremmo con tutta tranquillità applicarlo a vicende recenti della politica italiana.

Non come a Vermicino

La vicenda di Sarah non è però simile a quella di Vermicino, caso a cui è stato accomunato, come abbiamo visto, nelle analisi mediologiche. Nella tragedia di Vermicino il capro espiatorio era il bambino Alfredino e la sua tragedia umana ha avuto la funzione di coesione emotiva degli italiani in un momento difficile della storia della Repubblica: «Il Paese viveva un periodo molto difficile, legato alle vicende di Licio Gelli e della P2. Qualcuno, sperando in un lieto fine, pensò di compattare tutto il Paese davanti alla tv. E le cose andarono proprio così: la vicenda di Alfredino fece passare tutto in secondo piano. E segnò la fine degli anni Settanta e l’inizio di una nuova era». Sono le parole di Giuseppe Genna che ha messo in narrazione questa storia con vigore nel suo Dies Irae.

Con Sarah, vale la pena ribadirlo, il capro espiatorio – almeno nella prima fase – diventa l’apparato mediale stesso. È di Facebook la colpa della degenerazione dei nostri tempi. Anzi, no, è della televisione. E accusiamo, quindi, di manipolazione deliberata la costruzione del caso mediale: «Immaginiamo abili strateghi, ai quali nulla sfugge dei meccanismi vittimari, pronti a sacrificare vittime innocenti con cognizione di causa e machiavellica doppiezza», sempre nelle parole di Girard. Cioè attribuiamo ai media una sacralità consapevole del sacrificio che stanno celebrando. Ma come nota acutamente Girard, «che cose simili succedano, soprattutto nella nostra epoca, è possibile, ma non succederebbero neppure oggi se gli eventuali manipolatori non avessero a loro disposizione, per organizzare i loro colpi bassi, una massa eminentemente manipolabile, ossia gente suscettibile di lasciarsi rinchiudere nel sistema della rappresentazione persecutoria, gente capace di credere a un capro espiatorio».

La rabbia fuori

È quando in gioco ci sono le strutture più profonde del nostro mondo vicino, come ad esempio la famiglia, che i media tendono a diventare il capro espiatorio ultimo, come la vicenda di Cogne ha mostrato attraverso lo spostamento dell’indignazione per il delitto sulle puntate di Porta a Porta. Il caso di Sarah Scazzi funziona come capro espiatorio mediale in relazione alla degenerazione e ristrutturazione delle relazioni sociali in una società ad alto tasso di individualizzazione e mediatizzazione. Ma serve anche a proiettare all’esterno dei soggetti coinvolti (la famiglia) il meccanismo del capro espiatorio: la crudeltà del delitto che si gioca dentro la famiglia è troppo forte e crudele da pensare, metabolizzare, sopportare… e allora la violenza accumulata, la rabbia inespressa si riversa al di fuori, cioè nei media. La colpa è della televisione e del suo rendere pubblico in diretta il dolore. Il dolore, si sa, è un fatto privato. È un ambito della vita che non può essere costantemente socializzato. Eppure nella nostra società anche questo ambito subisce la socializzazione nella copertura mediale. È il dolore degli altri in cui noi siamo coinvolti.

Non possiamo solo pensarlo come spettacolo del dolore. I media, di fatto, mettono “noi” davanti al dolore degli altri, ma «non si dovrebbe mai dare un “noi” per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri» – vale la pena rileggersi Susan Sontag. Non si tratta solo di pensare al “noi” delle audience, per quanto attive, ma alla capacità di irritarsi, inorridirsi, provare compassione per quei “pezzi” di vita che viviamo anche attraverso i media. È la responsabilità dell’essere profondamente vicini al mondo a cui ci richiamano quelle immagini. Il volto della madre di Sarah ci riporta alla nostra responsabilità di cittadini, al non dover abbassare la guardia consolandoci di essere una civiltà, perché la barbarie è sempre in agguato. Eliminare la copertura mediale e ricacciarci nell’indifferenza non è la soluzione cui possiamo auspicare.

Reti pericolose

E non ci può bastare un’espiazione attraverso la pretesa di moralizzazione mediale che oscura le forme di immoralità della relazione sociale. Per questo non sarebbe, comunque, stato Facebook. Nella cinica elaborazione di Spinoza, uno dei baluardi della coscienza civile collettiva attraverso la satira, viene sintetizzato quello che si potrebbe scrivere a proposito della fine della vicenda mediale: «Sarah uccisa dallo zio. È confermato che su Facebook bisogna stare attenti: queste reti sociali, tipo la famiglia, sono luoghi pericolosi» (thecaulfield). Oggi, finita la querelle su “Chi l’ha visto”, elaborato lo shock ed individuato il colpevole, i media potranno esercitarsi nuovamente nella routine della costruzione del capro espiatorio attraverso approfondimento di psicologi, interviste alle figlie dello zio, la richiesta ai genitori di parlarci dei loro sentimenti, racconti sui molti profili Facebook dedicati a Sarah. Noi, invece, continueremo a oscillare tra lo sdegno per la tragedia e lo sdegno per il modo di continuare a trattarla.

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