Certo fare il castigatore dei costumi è un gran bello sport. Ma è comunque uno sport che ti trasforma in un piccolo Michael Moore, ingrassato e polemico, e alla fine vieni anche scambiato per un umorista. Insomma, dopo aver indicato il problema, bisognerebbe esporsi a trovare qualche soluzione.
Nelle prime due puntate dell’Indice delle parole proibite abbiamo cercato di puntare il dito su una serie di parole che frustrano lo slancio creativo e che intralciano ogni flusso produttivo. Il fatto è che la creatività rimane per molti versi una attività piuttosto misteriosa. Come nasce, come la si aiuta a crescere e a strutturarsi, come la si stimola e la si risveglia, sono temi che hanno impegnato fior di filosofi e di educatori lungo tutto il corso della nostra esistenza come genere umano.
Agli inizi si pensava che l’atto creativo fosse in qualche modo in diretta connessione con l’essenza divina. Per questo molte popolazioni primitive (oltre a diversi seguaci di band musicali) hanno pensato di utilizzare sostanze che aiutassero a vedere oltre. Poi sono nate le società complesse e la gente che faceva baccanali per strada, nuda ed ebbra non poteva essere accettata e dunque si sponsorizzò una creatività frutto della disciplina. Le botteghe e le scuole d’arte si assunsero il compito più modesto di insegnare ad usare gli strumenti (pennelli, liuti e calami) piuttosto che cercare il modo di parlare direttamente con Dio.
La storia dell’atto creativo, in maniera più che sintetica, la possiamo riassumere nel continuo ricercare un equilibrio tra questi due opposti modi di vedere. Manierismo-Romanticismo, Scuola-Vita, Manzoni-Kurt Kobain. Ma se questo conflitto dialettico, in tutti questi anni, non ha mai trovato una soluzione non vuol forse dire che entrambe le parti sono elementi fondamentali della stessa ricetta?
L’atto creativo è il tentativo di trovare equilibrio tra ispirazione e organizzazione (tra ispirazione e traspirazione come affermava Edison), più che la pratica di una tecnica. Un equilibrio delicato che va preservato, e il momento nel quale le informazioni transitano dal committente al “creativo” è un momento particolarmente delicato perché è il momento in cui l’equilibrismo tra ispirazione e controllo prende il via. Lo spirito creativo non lo si può accendere e spegnere con un interruttore. Per questa ragione è necessario cominciare bene. Per questa ragione le parole sono così importanti. E forse una chiave, una delle tante chiavi è quella di cercare di curare un po’ di più il nostro modo di comunicare dedicandogli un po’ di attenzione. Il primo sforzo deve venire da chi sta dalla parte della creazione, in quanto esperto degli strumenti che si andranno ad utilizzare.
Un cliente non è per forza un esperto della comunicazione. Allo stesso tempo non ama sembrare troppo sprovveduto e può capitare che utilizzi termini tecnici a sproposito. Con la massima delicatezza aiutatelo ad utilizzare i termini giusti. Se usa Newsletter al posto di Mailing List si possono spendere alcuni minuti a chiarire quale sia la differenza e qual è il servizio di cui si sta parlando.
Se qualche cosa non è chiaro ci rimette sempre il creativo, mai il cliente. Chiedere chiarimenti è sano e vantaggioso. Spesso un cliente non ha le idee chiare su quale prodotto necessiti: ne ha una visione spesso mitizzata, confusa. Chiarire un po’ alla volta l’obiettivo che ci si prefigge è fondamentale. E questo andrebbe fatto prima ancora di decidere quale mezzo utilizzare.
Bisogna mettersi nei panni dell’altro. Da un oggetto, da un sito, da una campagna pubblicitaria ci si aspettano cose diverse a seconda della posizione che si occupa. Il creativo vorrebbe fare una cosa bella, innovativa, da presentare ai concorsi. L’amministratore delegato vorrebbe qualcosa di cui vantarsi con gli altri amministratori delegati nelle cene di lavoro. Il direttore commerciale vorrebbe ottenere più clienti, la segretaria non vorrebbe avere del lavoro in più che nessuno riconosce. Ogni lavoro è un parto comune dato dall’equilibrio di tutti questi genitori. Parlare con ognuno di loro, anche in maniera informale potrà dare molte indicazioni (anche se io eviterei le barzellette per rendersi simpatici).
Dal punto precedente possiamo trarre un’altra considerazione. Non sempre si hanno background culturali comuni. Bisogna capire quale “vocabolario” sta nella testa di chi ci sta di fronte e quale raccolta di immagini affolla quotidianamente i suoi occhi. Troppo spesso i designer ragionano come designer abituati a immagini che a molti clienti possono risultare incomprensibili. Guardare le immagini e le forme di cui è fatto il mondo del cliente è un bell’allenamento per cominciare a creare qualche cosa di coerente. Sono pochi i designer che vengono chiamati per esprimere il proprio stile: ogni cliente vorrebbe vedere se stesso nel lavoro che commissiona e non fare da magnate. Un giusto equilibrio è la soluzione.
Prendere appunti. Bisogna ricordare correttamente quello che si è detto e non si può pretendere che sia il cliente a ricordare. Una buona regola è quello di scrivere tutto quel che si è detto in una riunione e farlo avere al cliente.
Scrivere è importante perché è una attività faticosa. Scrivere ci costringe ad utilizzare una grammatica e una sintassi accettabile (scripta manent). Ci da il tempo di controllare sul vocabolario l’ortografia e il significato dei termini che stiamo usando. La comunicazione verbale arricchisce il trasferimento delle informazioni con molti ausili (lo sguardo, il gesto, il tono e il ritmo della voce, le pause) per cui ci possiamo permettere di essere meno precisi (non a caso moltissimi degli svarioni dell’indice delle parole proibite provengono da conversazioni). Scrivere ci costringe a rivedere quel che si è scritto e a riflettere una volta in più su cosa si sta comunicando. Per scrivere c’è bisogno di concentrazione. Si deve sospendere ogni altra attività per dedicare, anche solo qualche minuto, ad un progetto, ad una idea (lo stesso dicasi di leggere e questo garantisce una certa attenzione a ciò che state comunicando). Troppo spesso le cose “dette” affondano nel rumore di molte altre cose dette e alla fine si crea un minestrone dal quale nulla ne esce più fuori chiaramente.
Certo la scrittura è solo uno dei metodi per ripulire la comunicazione. E anche la scrittura meriterebbe un capitolo a parte dell’Indice con le sue formule mummificate che permettono di scrivere pagine e pagine senza dire nulla (nell’ambito del progetto, implementazione funzionale delle caratteristiche, nell’attesa di una vostra cortese risposta porgiamo cordiali saluti).
Insomma una buona ginnastica per una ecologia della mente (come la chiamava Gregory Bateson) non è molto di più che una lotta contro la pigrizia. Troppo spesso, con la scusa che ci sono troppe cose da fare e che “tutti corriamo”, si trascura una buona comunicazione. Una trascuratezza che si trasforma pian piano fermentando in errori, svarioni, incomprensioni che portano via molte più risorse che quelle che porterebbe via dedicare un po’ di più di tempo ad elaborare una comunicazione trasparente e precisa.