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L’indice delle parole proibite (Seconda parte)

19 Maggio 2005

L’indice delle parole proibite (Seconda parte)

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Seconda parte della ricerca delle parole che mortificano lo slancio creativo

I sepolcri sono smossi. Davvero non credevo di sollevare un tale vespaio su delle semplici parole: sono stati numerosi i lettori che mi hanno scritto e che hanno suggerito parole nuove e meravigliose, un segno che le parole hanno ancora un valore. Ringrazio collettivamente tutti quelli che hanno aperto i propri armadi e ne hanno tirato fuori gli scheletri lessicali che hanno affaticato le carriere. Ora ecco altri capolavori del non sense.

Degna di figurare nella prima raccolta la parola Impatto con la sua variante “impattante”. Una parola abusata dagli amanti del business aggressivo. In altri contesti la parola indica qualche cosa di negativo (chiedetelo ad un assicuratore). Anzi, molto negativo essendo legato a scontri ad alta velocità di mezzi di trasporto piuttosto grandi (un aereo impatta, una fiat cinquecento al massimo tampona). Una parola difficile da interpretare per cose che non hanno un vero rapporto fisico col proprio utente come un flyer, un sito o un video. Forse si allude allora ad un impatto di tipo emotivo, una esperienza che sconvolga la nostra percezione (un flyer al profumo di stallatico) o sconvolga la nostra concezione della vita (un video che dimostra che siete figli di Michael Jackson). Eccoci di fronte ad una parola fortemente imparentata con “nuovo” ovvero una indicazione che invita a spiazzare il nostro destinatario senza offrirgli una alternativa. Lo si colpisce e lo si lascia a terra sanguinante. A quale scopo? Usare le parolacce, foto di operazioni dentistiche, illustrazioni di attività biologiche, performances di body art con parenti defunti: tutto ciò sarebbe molto impattante. Al prossimo cliente, pensateci.

Certo molto meglio se dopo svariate insistenze il vostro cliente aggiunge l’aggettivo simpatico. L’origine greca del termine ci dice che siamo di fronte a un oggetto che partecipa del nostro pathos, che ci capisce e che magari ci strappa un sorriso. Ma come si fa ad essere simpatici con un logo o un sito? Certo, un sito che vi saluta la mattina e vi da una pacca sulle spalle quando siete giù, o che porta per voi la macchina dal meccanico è davvero desiderabile ma nel mio caso mi deve conoscere bene: non sopporto i buontemponi che sono sempre allegri. Se ho voglia di starmene per i fatti miei un sito davvero sin-patico (che patisce con me) lo capisce e mi lascia in pace. Le varianti di questo termine sono allegro, piacevole, divertente.

Vorrei spendere due parole speciali sul termine divertente. La sua origine rivela il suo lato sinistro: divertire significa volgere altrove, deviare. Insomma il divertimento è l’allontanamento dalle preoccupazioni e dalle tristezze della vita e forse anche dal nostro pensiero più complesso. In questo senso i giochi sono raramente “divertenti” in quanto specchio profondo della realtà. Questa digressione è dedicata a quei creativi pubblicitari che si ostinano a presentarci del cibo divertente. Dovremmo forse ridere mangiando un certo tipo di pietanza? O forse è meglio distrarci, come si fa con i bambini inappetenti (“guarda l’aeroplanino… aaammm”) per non sentire l’insipidezza di ciò che mangiamo? Non è proprio tutta colpa dei clienti se nelle riunioni “creative” tirano fuori termini oscuri: siamo nell’epoca dell’opaco dove le cose non hanno più il proprio nome perché a volte chiamando le cose col proprio nome c’è il pericolo che ci si accorga di comperare sempre le stesse cose spacciate per nuove, simpatiche, divertenti, innovative.

La digressione gastronomica mi porta a considerare quelle parole legate a mondo del cibo che si usano in contesti creativi nel tentativo di comunicare un certo mood. Un carattere “sfizioso“, una home page “invitante” ed eccoci invitati al banchetto delle parole con un sapore. Del resto come si dice molto spesso “bisogna incontrare il gusto del nostro target”. E il menu è servito. Il rapporto col cibo è piuttosto complesso, lo dimostrano i programmi di cucina in tv e l’anoressia. Il cibo è una esperienza completa, totalizzante, profonda e letteralmente cambia la vita sia da un punto di vista chimico che emotivo. Fin da piccoli ci viene insegnato cosa è buono (frutta, verdura, yogurt) e cosa è cattivo (tutto ciò che ha un buon gusto e una piacevole consistenza). I brufoli, la forfora, i capelli grassi, la svogliatezza, la depressione sono frutto di una cattiva alimentazione durante l’adolescenza. Nella mezza età la gastrite, la digestione lenta, la potenza sessuale ridotta sono il frutto di eccessi gastronomici che fino a pochi anni prima non erano chiamati eccessi ma “serata con gli amici”. L’esperienza del cibo è totalizzante e chi non vorrebbe essere totalizzante per il proprio cliente. Dunque voglio essere invitante, sfizioso e… perché no, sexy.

Si lo ammetto ho avuto clienti convinti di volere un design sexy. Sexy è una parola inglese formata dalla parola sesso e da quella particella rappresentata dalla lettera y che trasforma la parola che la porta a diventare un intero universo. Tune (melodia) diventa tuny (tutto ciò che è melodico), scare (spavento) diventa scary (spaventoso), jerk-jerky, noise-noisy e così via. Insomma da un termine che indica qualche cosa di preciso (mi sono preso uno spavento) ad uno stato indefinito e relativo (spaventoso). E così sexy è un termine che va dal cosy (accogliente intimo) all’horny (decisamente spinto) alludendo ad una gamma piuttosto vasta e privata della sessualità e del rapporto uomo-donna (e del rapporto uomo-uomo e donna-donna naturalmente) ambiti difficilmente esplorabili da un pubblicitario o da un web designer. Nello stesso scaffale troviamo attraente, e il meno elegante figo (esempio: voglio un sito veramente figo).

E allora per finire questa seconda parte riportiamo il discorso nell’alveo di una certa serietà e parliamo pulito. Pulito come il design pulito. In genere questo termine, che non a caso significa anche levigato, viene accompagnato con gesti significativi che rappresentano linee diritte o curve perfette. Il design pulito è opposto al cattivo gusto di chi riempie le pagine di ogni sorta di informazione (secondo la laconica estetica di un mio cliente “il bianco non paga” significando che in una pagina -bianca- più roba c’è meglio è). Insomma una questione di essenza, di estetica sospesa. È una attitudine che potremmo definire come antitetica allo spirito sexy: qui siamo nel mondo dell’impalpabile, del lineare giapponese (suggerisco la lettura di Libro d’Ombra di Junichiro Tanizaki). Insomma la sala calvinista contro il barocco leccese, sushi contro pajata, Resnais contro Kusturica, Aiku contro Cervantes. Maleviç contro Bosch. Pulito ha in sé una connotazione moralistica che rende spesso i suoi supporters dei veri e propri inquisitori amanti del carattere grigio corpo sette, fautori di una essenzialità che a volte piomba nella mania e va a rasentare l’incomprensibilità. Sono prodotti meditativi più che comunicativi. Insomma il bianco paga e anche molto.

Finisce qui la seconda puntata e, con il permesso della redazione, mi accingerei a redigere anche una terza parte per render giustizia all’enorme e multiforme vocabolario che ci aiuta a descrivere, ingabbiare, controllare il nostro universo interiore che nell’attività creativa scalpita per trovare una forma visibile. Ogni suggerimento, come sempre, è molto gradito.

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