C’era una volta il proprio sito personale. Con il suo bel contatore degli accessi. E c’era chi faceva a gara a chi aveva il numero più alto. Size Matters. Più gente entra, più bestie si vedono. Più gente clicca o digita, più vede il mio sito, più io esisto. Più sono importante. Figuriamoci poi quando è arrivato Google Analytics, che ha permesso anche al privato (nel senso di privato di senso critico e di autocritica) di spaccare le visite al proprio sito o blog per fasce sociodemo, per ore e giorni, per lingua e sistema operativo. Un conto però molto, troppo freddo.
Compra il mio follow
L’apoteosi è ovviamente arrivata coi social media. Non solo so “quanti”, ma so chi. Posso vedere chi mi segue. Anzi, forse il massimo è Twitter; su Facebook si parla di “amici”, il che implica una sensazione di paritetica uguaglianza. Su Twitter sono “follower”, che seguono il mio illuminato pensiero. Di qui al delirio di onnipotenza il passo è breve. E non venitemi a dire che sui social network – e per carità cristiana ometto di parlare di FriendFeed – non ci sono un po’ troppe persone affette da problemi all’ego e che le reti sociali (e il numero di seguaci) sono bravissimi a massaggiare. Da queste considerazioni trovo simpaticamente pericolose iniziative come quella di Comic Relief. Che, sia pur a fin di bene, rischia di far sbroccare definitivamente un po’ troppa gente, rendendola socialmente inaccettabile (in pratica, da narcotizzare a vista).
In pratica, la benemeritissima organizzazione benefica inglese, nota per il suo naso rosso simbolico e l’approccio a usare umorismo ed entertainment per raccogliere soldi per nobili cause, ha pensato bene di sparare una cannonata atomica: far diventare una celebrità… un tuo follower. E se già c’era chi se la tirava a strappo sul fatto di avere Obama tra i contatti su LinkedIn, figuratevi un po’ cosa potrà combinare sapendo che la celebrità in questione è pronta a metterci la faccia (con il naso rosso) per permetterti di farti bello con gli amici e, ovviamente gli altri accoliti/follower. Il gioco si basa giustamente su un meccanismo d’asta: vuoi il massaggino all’ego, tira fuori la lira. E se eri quello con l’offerta più alta, il tuo (o la tua) nuovo (nuova), celebre follower non solo ti prometteva di seguirti su Twitter per ben 90 giorni, ma si impegna a ritwittare un tuo messaggio e persino a mettere nel package un tweet tutto per te con tanto di @username. Alcune star, poi, in modo molto 1.0 e poco digitale hanno pensato (andando fuori tema?) di inserire dei benefici più analogici che digitali, come avere una “walking part” nel prossimo film di Richard Curtis (il che vuol dire che vi si vede passare sullo sfondo della pellicola), parlare 5 minuti al telefono con Nick Frost, avere vari oggetti collezionabili autografati o poter assistere a una performance esclusiva per voi (via Skype) offerta da Robert Webb.
Molto meglio che tacere
Un bel progresso, comunque, rispetto all’evitare di far tacere le star; in un’altra operazione benefica, infatti, si era adottato il processo inverso. Celebrità universali quali Lady Gaga, Alicia Keys, Justin Timberlake, tutti col loro bravo account che li relaziona con i fan, avevano promesso di togliersi da Twitter, Facebook eccetera e scioperare fino a quando gli utenti della rete non avessero raccolto almeno 1 milione di dollari a supporto di Keep a Child Alive. Un progresso, dicevamo, visto che questo approccio negativo non sembra abbia funzionato un granché, tanto che dopo un po’ le star, nonostante l’obiettivo fosse ancora lontano, non hanno resistito alla dipendenza da social media e alla loro esposizione digitale e hanno ricominciato a essere socialmente “alive & kicking”. “Mi seguono, dunque sono”, potrebbe essere la morale di questo pezzo. Una morale che non condivido appieno, tanto che ho sempre la forte tentazione, quando qualcuno mi fa un follow, di rispondere “Non seguitemi mi sono perso anch’io”.