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Le ricadute high-tech dello stato emergenziale

20 Novembre 2001

Le ricadute high-tech dello stato emergenziale

di

Oracle insiste per la ID nazionale, i grandi media vogliono altra deregulation

Si allargano a tutto campo in USA le ricadute della tragedia dell’11 settembre. E non potrebbe essere altrimenti, anzi così sarà per molto tempo a venire. Alcune fonti spingono l’arma ipertecnologica contro ogni terrorismo, altre ne evidenziano invece i grossi limiti. I media cercano di tenere alta la tensione, anche per poter chiedere a gran voce un’ulteriore, pesante deregulation. Nel frattempo, arrivano assai rarefatte le notizie sulla “guerra” in Afganistan e ci si prepara a festività più sobrie e meno spendaccione.

Mentre gli Stati Uniti cercano di “adattarsi alla nuova realtà della guerra e del terrorismo,” come riporta il numero di dicembre di Technology Review, aumentano le domande sul futuro. Come usare al meglio la tecnologia per uscire da quest’enorme impasse? Come mai nonostante il grande apparato high-tech da sempre a disposizione dei servizi di intelligence non si è riusciti a prevedere o sapere nulla degli attentati? Cosa è accaduto a quei poderosi strumenti di sorveglianza globale alla Big Brother voluti dall’FBI (Echelon, Carnivore e compagnia bella) in questa terribile circostanza? Queste alcune delle questioni poste dalla rivista, che tenta di rispondere tramite una serie di stimolanti articoli. Uno di questi ricorda tra l’altro che “il procedimento di trasformazione dei dati grezzi in informazioni sicure è ben lungi dall’essere perfetto.” In pratica, anche quanto dovessimo avere in piedi un stato di sorveglianza in pieno stile Orwell, risulterebbe molto difficile poterne derivare informazioni utili e tempestive a prevenzione di simili atti terroristi. La tecnologia è tutt’altro che perfetta e affidabile, dunque.

Eppure, insieme alle pesanti norme in ambito digitale incluse nel noto USA Patriot Act di recente approvazione, c’è chi insiste sulla necessità di una carta d’identità nazionale. Dopo la polemica uscita di Larry Ellison, boss di Oracle, ora tocca al suo vicepresidente Tim Hoechst. Di fronte ad una commissione parlamentare, questi ha spiegato come una tale opzione consentirebbe agli apparati dei vari stati ed agenzie di condividere un enorme database comune. “È importante collegare tra loro le maggiori strutture d’informazione tramite un sistema d’identificazione standard,” ha chiarito il dirigente della maggiore azienda di software per database, forse alla ricerca di un nuovo lucrativo mercato. Peccato che perfino l’ex-presidente della Camera Newt Gingrich abbia tranquillamente ribattuto: “Sarei contrario all’istituzione di un’ID nazionale perché minerebbe le libertà civili.”

Nel frattempo anche i grandi conglomerati dei media cercano di sfruttare il momento non certo tranquillo. Notoriamente il pubblico non presta molta attenzione all’attività della FCC (Federal Coomunications Commission), con tanti ringraziamenti da parte delle mega-testate e dell’attuale responsabile, Michael Powell (figlio di Colin) il quale considera il settore dei media al pari di una qualunque industria privata. Ben vengano quindi ulteriori consolidamenti, ancor più se sulla spinta dei fatti dell’11 settembre. Sembra infatti che finora i media abbiano speso 100 miliardi di dollari supplementari per coprire a dovere gli eventi seguiti da quella data, e ancora più dovranno investirne per seguire i futuri sviluppi della lotta globale al terrorismo. Al contempo, quegli stessi eventi avrebbero provocato una perdita di 500 milioni di dollari per mancate inserzioni pubblicitarie. Ergo, come avvenuto per altri ambiti, anche la grande informazione ha bisogno di qualche aiuto governativo. No, stavolta non si tratta di grossi contributi come per l’industri aerea, quanto piuttosto di una nuova ondata di deregulation.

Michael Powell e la maggioranza repubblicana della FCC non hanno dubbi sulla necessità di tale operazione. Sembra quindi scontato la cancellazione di due norme a tutela della pluralità delle fonti e contro i monopoli, entrambe tra breve in discussione presso la stessa FCC. La prima regola, stabilita oltre 25 anni fa, vieta alla medesima testata di possedere un quotidiano e una stazione radio o TV nel medesimo mercato. L’altra specifica che nessun network televisivo possa coprire una quota superiore al 35 per cento delle famiglie USA. La posizione dei moghul dei media (e della FCC) sembra essere quella che, soprattutto in tempi di crisi come l’attuale, il consolidamento sia vitale per impedire l’eccessiva frammentazione delle fonti e per offrire al pubblico maggiori prospettive informative. Da notare che già oggi i grandi gruppi non superano le dieci unità, e con la nuova deregulation sarebbero ridotti ulteriormente della metà.

Va da sé che ciò finirà col produrre non poche conseguenze negative, tra cui drastiche riduzioni di organico, morte sicura del giornalismo investigativo, chiusura degli uffici esteri, maggior ricorso ad esperti fissi profumatamente prezzolati. Questo l’elenco evidenziato tra gli altri una nuova organizzazione fondata a Washington, il Center for Digital Democracy, la quale si appresta a lanciare una campagna pubblica di opposizione alla proposta cancellazione delle due norme. Punto forte di tale campagna, spiega il direttore Jeff Chester, i similari effetti nefasti registratisi sin dalla prima fase di deregulation avviata sotto Ronald Reagan. Insieme al drastico taglio del budget per le news e la netta spinta verso il cosiddetto infotainment, visto che tra le grandi proprietà spiccano nomi come Walt Disney e Time Warner.

Trionferà l’ideologia emergenziale anche in settori chiave come l’high-tech e i mass-media?

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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