“Agents of change”, le persone come motore del cambiamento: mai come quest’anno il Personal Democracy Forum ha costruito il suo annuale appuntamento (l’ottavo, presso la sede della New York University) sulle storie eccezionali di persone comuni che cambiano il mondo. L’attenzione al Medio Oriente (Egitto, Tunisia, Libia) è massima e molti sono gli speaker che raccontano la loro esperienza di rivolta, di creazione di comunità, di movimenti che vivono da anni e solo in questo momento storico sono esplosi e diventati noti.
Narrativa della rivoluzione
E la tecnologia? Lo spiega uno degli speaker più applauditi, l’egiziano Alaa ad bel Fattah, blogger, geek e attivista e autore del blog Manalaa: «La tecnologia ci ha fornito un mezzo perfetto per costruire una narrativa della rivoluzione». In molti casi, infatti, gli strumenti non sono affatto sofisticati, tra webcam rudimentali e vecchi modelli di cellulare: gli sms restano sempre il modo di comunicare più efficace e pervasivo. E forse è per questo che il governo egiziano ha imposto alle compagnie telefoniche occidentali di interrompere i propri normali servizi per diffondere messaggi che invitavano alla calma e a restare dentro casa. Un ribaltamento di ruoli in cui le aziende (come Vodafone UK, criticatissima dagli attivisti egiziani) finiscono per diventare mezzi di informazione “di Stato”: ma quali sono le loro responsabilità quando si parla di diritti umani? Il tema emerge già nella prima mattinata e, inaspettatamente, il problema viene affrontato da uno dei pochi speaker europei, l’europarlamentare olandese Marietje Schaake, da tempo impegnata sui temi della libertà di espressione e il diritto universale all’accesso. Ed è quasi sorprendente sentire arrivare l’appello alla necessità di leggi globali e non nazionali da un politico: Schaake lo sottolinea e conclude poi il suo intervento con una richiesta al pubblico, a chi popola e usa la rete quotidianamente: «Costruiamo insieme una base di conoscenza condivisa, troviamo un modo di informare correttamente su questi temi».
Condivisione emotiva
La condivisione anche emotiva è l’altro tema che attraversa i discorsi sul cambiamento e le rivoluzioni dell’ultimo anno: la resistenza si costruisce anche guardando il volto di un ragazzo ucciso durante la protesta su una pagina Facebook, racconta la giornalista americano-egiziana Mona Elthawy citando la pagina We are all Khaled Said. «Era il volto di un ragazzo simile a tanti altri: la gente si è riconosciuta, ha condiviso la sofferenza, ha creduto maggiormente nella necessità di unirsi e scendere in piazza», conclude. Ma l’empatia davanti al dolore può avere molte forme e trovare spazio anche in luoghi non afflitti dalla guerra, non quella tradizionalmente intesa. La battaglia di Jim Gilliam, un attivista trentenne che sale sul palco con un intervento dal titolo Internet is my religion, è infatti tra le più comuni e a noi vicine: quella contro il cancro. Gilliam, magro e altissimo, quasi non tradisce emozioni quando inizia a raccontare una terribile storia di malattia e dolore, di ricadute e trapianti, una battaglia lunga anni in cui ha perso la fede in Dio e nel mondo, ritrovandola grazie a un blog e al sostegno di moltissime persone che gli sono state vicino senza conoscerlo. «Ognuno di noi può creare qualcosa, ma tutti insieme noi siamo “Il Creatore”. Oggi ho fiducia nelle persone, credo in Dio e internet è la mia religione»: un messaggio provocatorio, che per alcuni potrebbe suonare quasi blasfemo, ma che per il pubblico di Personal Democracy Forum è una testimonianza forte e che spiega la quotidiana motivazione di moltissime persone all’uso della rete per creare ponti e connessioni, per cercare di migliorare il mondo un passo alla volta, un clic alla volta. «Sintetizza perfettamente tutto quello in cui credo, tutto il senso di questa comunità di persone» dirà in seguito il fondatore di PdF Andrew Rasiej. E il video di Gilliam diventa subito virale, con più di 62.000 visualizzazioni nelle 24 ore successive.
Politica sullo sfondo
Ma la principale conferenza sui cambiamenti che la tecnologia porta nella politica ha uno spettro ampio di argomenti affrontati dalle più brillanti menti del settore: Danah Boyd presenta i suoi studi sulla privacy e i social network, invitando a ragionare in termini di rete e non solo di individuo; Jay Rosen dà severissimi voti sul giornalismo partecipativo, con la consapevolezza di chi ha conoscenza ed esperienza (e nessuna paura di risultare “antipatico”, anzi); Clay Shirky – incredibile, ma vero – dà il suo contributo da spettatore e presenta i suoi studenti e i loro lavori più interessanti (come Rosen, anche Shirky insegna alla New York University). E la politica? Quest’anno c’è pochissimo spazio per le campagne elettorali e, invece, diversi interventi di politici all’avanguardia (l’europea Schaake, la senatrice americana Gillibrand, entrambe impegnate per la trasparenza dell’attività parlamentare) e di funzionari pubblici che provano a innovare pratiche e processi. Ma siamo ancora ben lontani dal ritrovare fiducia verso la classe politica: ancora una volta Lawrence Lessig si assume il compito di portare l’attenzione sui concetti che diamo per scontati, in una riflessione sul blocco sociale in cui ci troviamo. L’oggetto della sua presentazione sono le infrastrutture, la competitività, la neutralità della rete: gli interessi privati delle grandi organizzazioni vengono trattati come fossero requisiti di politiche pubbliche. Un tema su cui non si può «essere neutrali».
I motori siamo noi
E forse è proprio qui che l’edizione 2011 trova una sintesi: nel tracciare una netta distinzione tra quello che è oggi la politica e quello che le persone sono in grado di fare, nel ricordare come la tecnologia non sia affatto neutra per definizione o necessariamente una forza positiva, nel raccontare come la rete possa annientare le distanze e unire empaticamente o fisicamente. E di come, magari, internet possa essere la nostra religione, semplicemente perché ci ricorda che siamo noi i motori del cambiamento.