A Maker Faire di Roma era presente una manciata di makers controcorrente alla straripante presenza di schede prototipali, stampanti 3D, droni e altro hardware. Sono i pionieri del DIY Bio, gli smanettoni di particelle biologiche.
Uno di loro ha iniziato dall’idea che i rifiuti elettronici sono difficilissimi da smaltire, addirittura dannosi per l’ambiente. Trattandosi di milioni di tonnellate all’anno di ciarpame elettronico per lo più tossico, si è posto l’obiettivo di creare componenti semiconduttori a partire da materiale biologico, atossico e soprattutto smaltibile a ciclo esaurito.
È nato così il progetto Electronique Biodégradable, per la passione di Michka Mélo, biomaker poco meno che trentenne, presente alla fiera con il suo banchetto zeppo di provette assortite. Tutte contenenti sostanze di facilissima reperibilità (se alcune non sono già presenti in cucina è sufficiente fare un salto in farmacia), che sapientemente e pazientemente miscelate e trattate nelle giuste proporzioni insieme al kefir (bevanda rinfrescante ottenuta dal latte) gli hanno consentito di creare cubetti gelatinosi di melanina, materiale bio che si comporta come un semiconduttore e collegato a un onnipresente Arduino sostituisce egregiamente i sensori di temperatura.
Chi fosse interessato al DIY biologico, consideri però qualche probabile difficoltà di integrazione nel pensiero comune. Nelle linee guida del sito di crowdfunding Kickstarter, per esempio, possiamo leggere:
I progetti non possono offrire come ricompensa [in cambio di un finanziamento, meccanismo alla base del funzionamento del sistema] organismi geneticamente modificati.
Immaginiamo il perché, ma è interessante che si stia dando per scontato come un generico tizio, armato di tanta passione e di un garage sapientemente attrezzato, possa trovare anche i fondi per immettere sul terreno qualcosa di vivo e mai come in passato.
Aggiungiamo alla riflessione il fatto che tutto ciò è anche molto apprezzato da multinazionali multiprodotto. Il maker Mélo sta realizzando la sua ricerca in laboratori liberi, attrezzati allo scopo di supportare makers d’ogni estrazione. La particolarità è il loro essere di proprietà di una notissima azienda giapponese, che a Parigi lascia spazio a tutta l’inventiva possibile, promettendo due cose: la circolazione delle idee in spirito open source e l’appropriarsi di quelle eventualmente buone. Per cosa? Decide l’azienda, ovviamente. Tutto molto intrigante: è il fermentare di un mondo in crescita esponenziale.