Pixar Animation Studios rappresenta il modo in cui l’industria culturale ha coniugato il digitale e l’anima delle cose. Come ho sentito dire a John Lasseter, che è direttore creativo della Pixar e della Walt Disney Animation Studios: la tecnologia è niente se non c’è un’anima nel digitale. Sarà per questo che l’incontro organizzato da Maria Grazia Mattei per Meet the Media Guru ha visto letteralmente sommergere la sala del Teatro Dal Verme a Milano di una folla transgenerazionale con l’eccedenza dei giovani adulti il cui immaginario si è forgiato a colpi di modellizzazione 3D e rendering. Come ha twittato @SemharGS: «Stasera c’era il concerto di #LennyKravitz ma non ho resistito…ho preferito l’appassionante story telling di John Lassater».
Trending topic
La sua presenza a MMG ha prodotto un racconto geolocalizzato e sparso su Twitter a cui è dedicato uno storify che sintetizza umori e voci: un bel modo di mettere in narrazione eventi e rete, di mostrare i percorsi di relazione fra pubblico in sala e online, fra esperienza nei luoghi materiali e immateriali attorno a uno spettacolo organizzato. È a partire da questa narrazione che per la serata #MMGLasseter resterà trending topic non solo nella classifica italiana ma anche in quella globale. Potenza non solo della lingua inglese, ma dell’universalità delle immagini Pixar che hanno colonizzato il nostro immaginario animato negli ultimi vent’anni.
Sì perché probabilmente il nostro modo di vivere (con) le immagini digitali oggi dipende anche dalla lenta socializzazione lungo cui i prodotti Pixar ci hanno accompagnato come spettatori, videogiocatori, consumatori di gadget. La fascinazione affettiva per gli oggetti digitali passa anche da qui. Da oggetti digitali caricati di un’esaltazione della dimensione “tattile” ed emotiva. L’estetica morbida e rassicurante di mostri (Monsters&Co.), giocattoli (la serie di Toy Story), macchine (Cars) o robot (Wall-e) associata a un racconto che armonizza il nostro rapporto con la diversità ha concretizzato il sex appeal dell’inorganico, raccontato da Walter Benjamin per descrivere la seduzione delle merci e riattualizzato da Mario Perniola per sancire l’incontro tra i corpi (qui materiali e immateriali) come pura esteriorità, in cui astrazione e passionalità si incontrano.
Allestimento
La presentificazione di questo incontro lo abbiamo nella mostra Pixar 25 anni di animazione al Padiglione di Arte Contemporanea. Proveniente dal MoMa di New York, l’esposizione è curata dalla bravissima Elyse Klaidman (tanto per sottolineare come stiamo parlando di una forma d’arte contemporanea che ha strutturato le estetiche dello sguardo) e per l’Italia curata dalla stessa Maria Grazia Mattei, con un allestimento dell’architetto Fabio Fornasari (realizzatore già del Museo del Novecento) che sa valorizzare i contenuti richiamando la cornice dello sviluppo dell’arte della meraviglia intrecciata al percorso museale. Straordinarie ad esempio le wunderkammer sparse lungo il percorso, camera delle meraviglie contemporanee che mettono in mostra specie digitali diverse sotto forma di sculture dei diversi personaggi dei film. E poi schizzi, Story Reel e gli stupefacenti colorscript, veri e propri storyboard della luce e dell’uso dei colori caldi e freddi nelle scene: in un pannello l’equazione di cui parla Lasseter luce+colore=emozione del film Gli Incredibili spiega bene il lavoro progettuale che sta dietro a ogni particolare della scrittura di un’animazione. Poi ovviamente c’è tutto il resto:
Un percorso costruito con oltre 500 opere, un viaggio attraverso la creatività e la cultura digitale come linguaggio innovativo applicato all’animazione e al cinema: dal primo lungometraggio dedicato a Luxo Jr. (1986) ai grandi capolavori come Monster&Co. (2001), Toy Story (1, 2 e 3), Ratatouille (2007), Wall-e (2008), Up (2009) sino a Cars 2 (2011) e con un’anticipazione di Brave, in uscita nel 2012.
Panoramatici
Ma forse l’affermazione della cultura digitale costruita dalla Pixar e la strutturazione del rapporto con le immagini che ha prodotto con noi, suo pubblico, lo ritroviamo perfettamente rappresentato nei due “dispositivi” della mostra: lo zootropio e l’Artscape. Il primo – controllato a distanza dall’America – riprende l’arte dello spettacolo visivo ottocentesco, un’epoca di socializzazione con le immagini in movimento, in cui attraverso un artificio ottico i personaggi plastici di Toy Story, lo Sceriffo Woody e Buzz Lightyear, il cane a molla Slinky e la cowgirl di pezza Jessie, prendono vita sotto il nostro sguardo. Ne esistono solo due al mondo: l’altro, cui questo si ispira, lo trovate nel Museo dello Studio Ghibli pensato da quello straordinario generatore di mondi animati che è Hayao Miyazaki. La risonanza tra le due realtà produttive è evidente.
L’Artscape si richiama ai dispositivi “panoramatici”, siamo sempre nelle descrizioni del contesto emergente dell’industria culturale e dell’immaginario che Walter Benjamin fa nello scritto Parigi capitale del XIX secolo: «C’erano panorami, diorami, cosmorami, diafanorami, navalorami, pleorami, fantascopie, fantasmaparastasi, expériences fantasmagoriques, viaggi pittoreschi in una stanza, georami; pittoreschi ottici, cinerami, fanorami, stereorami, ciclorami, panorama dramatique». Lo spettatore entra in una sala in cui un megaschermo lo immerge senza tecnologie aggiuntive in una simulazione animata 3D che propone un viaggio nel concept art dei film Pixar attraverso le tecniche tradizionali che stanno alla base del lavoro: il disegno, i colori a tempera, i pastelli, il carboncino… In pratica si fa un’esperienza delle immagini dal punto di vista di chi le crea, lasciandosi avvolgere da luci e colori, dalle animazioni di base, da quell’artigianato che permea la poesia che sta nelle cellule di un cartone animato. La mostra è quindi un potente contenitore simbolico capace di raccontare il rapporto che abbiamo costruito con le immagini digitali, basta guardare i comportamenti di adulti e bambini che la visitano.