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L’arte dell’hacking – Le idee, gli strumenti, le tecniche degli hacker

22 Marzo 2004

L’arte dell’hacking – Le idee, gli strumenti, le tecniche degli hacker

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La parola hacking evoca alcuni stereotipi: vandalismo elettronico, spionaggio industriale e personaggi pittoreschi con capigliature variopinte e anelli nel naso. È molto diffuso il pregiudizio secondo cui l'hacker sarebbe un criminale. Benché vi siano senz'altro degli individui che utilizzano le tecniche di hacking per scopi illeciti, l'hacking è tutt'altra cosa e tende semmai ad assecondare il rispetto delle leggi anziché la loro violazione. Di seguito l'introduzione (nonché primo capitolo) del libro di Jon Erickson "L'arte dell'hacking".

Essenzialmente, l’hacking consiste nell’individuare, in un determinato contesto tecnico, delle possibilità impreviste o trascurate e nell’utilizzarle in nuovi modi creativi per risolvere un problema, per esempio, per riuscire ad accedere a un sistema informatico eludendone le protezioni o per individuare una soluzione che consenta di controllare un trenino elettrico in miniatura mediante un’apparecchiatura telefonica obsoleta. Di solito, le soluzioni basate su uno hack consentono di risolvere questi problemi in modi originali, inimmaginabili da coloro che adottano una metodologia convenzionale.

Verso la fine degli anni ’50, al MIT Model Railroad Club (un gruppo di appassionati di modellini di treno) furono donate delle apparecchiature obsolete, per lo più telefoniche. I membri del club le utilizzarono per creare un sistema complesso che consentiva a più operatori di controllare diverse tratte ferroviarie del trenino mediante una connessione telefonica all’opportuna sezione.

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Essi chiamarono “hacking” questo utilizzo nuovo e originale delle apparecchiature. Secondo l’opinione di molti, costoro furono i capostipiti degli hacker. Si dedicarono quindi alla programmazione su schede perforate e nastri scorrevoli per i primi computer, per esempio l’IBM 704 e il TX-0. Mentre altri si accontentavano di scrivere programmi che risolvessero problemi, questi pionieri erano ossessionati dall’idea di scrivere programmi che lo facessero in modo brillante.

Essi ritenevano che un programma che permetteva di ottenere lo stesso risultato con un numero minore di schede perforate fosse migliore, sebbene facesse le stesse cose. La differenza stava nel modo, che potremmo definire elegante, in cui esso consentiva di ottenere i risultati auspicati.

Riuscire a ridurre il numero di schede perforate occorrenti per un altro programma era una vera e propria arte, che veniva apprezzata e ammirata dagli intenditori. Ricorrendo a un’analogia: un vaso con una pianta di azalea può essere appoggiato casualmente sul frigorifero, ma su un tavolino elegante, realizzato con tecniche raffinate, è senz’altro più gradevole esteticamente. I primi hacker trasformarono la programmazione da un’attività puramente tecnica in una forma d’arte destinata, come spesso accade, alla fruizione da parte di un’élite di cultori della materia, risultando invece incomprensibile ai profani.

Questo approccio alla programmazione creò una sottocultura informale, con uno spartiacque tra coloro che apprezzavano l’eleganza dell’hacking e coloro che vi erano refrattari. Tale sottocultura sottintendeva un enorme interesse per l’acquisizione di nuove conoscenze e di una padronanza ancora maggiore su quest’arte. Questi pionieri ritenevano che le informazioni dovessero essere scambiate liberamente, abbattendo qualsiasi ostacolo (autorità accademiche, burocrazia delle università e varie forme di discriminazione) alla loro libera circolazione. Andando controcorrente rispetto alle opinioni prevalenti tra gli studenti, questo gruppo informale di hacker mise in discussione la validità di un sistema scolastico basato sui voti, anziché sull’amore e la gioia del sapere. Questa spinta a imparare ed esplorare continuamente oltrepassava anche i tradizionali confini imposti dalla discriminazione, come risulta evidente dall’accettazione nel gruppo di Peter Deutsch, ancora dodicenne, dopo che costui ebbe dimostrato la sua conoscenza del TX-0 e la sua sete di conoscenza.

Età, razza, sesso, aspetto esteriore, diplomi universitari e stato sociale non costituirono criteri primari per giudicare il valore degli individui; ciò non tanto per un desiderio di uguaglianza sociale quanto per l’aspirazione a far progredire l’arte emergente dell’hacking.

Gli hacker si esaltavano scoprendo splendore ed eleganza nella matematica e nell’elettronica, ritenute tradizionalmente delle discipline molto aride. Essi considerarono la programmazione alla stregua di una forma di espressione artistica, mentre il computer costituiva lo strumento di questa arte. Il loro desiderio di dissezionare e comprendere non intendeva demistificare l’opera d’arte, ma era semplicemente un modo per apprezzarla maggiormente. Questi valori, ispirati alla sete di conoscenza, sarebbero poi divenuti parte integrante della cosiddetta etica degli hacker: l’apprezzamento della logica come forma d’arte e la promozione del flusso libero delle informazioni, al di là dei tradizionali confini e delle restrizioni, al solo fine di comprendere meglio la realtà. In effetti, niente di nuovo sotto il sole; nell’antica Grecia, i pitagorici avevano un’etica e una sottocultura simili, malgrado i computer non esistessero ancora. Essi colsero la bellezza insita nel ragionamento matematico e scoprirono molti concetti fondamentali della geometria. Questa sede di conoscenza e i suoi benéfici sottoprodotti sarebbero stati tramandati nel corso della storia, dai pitagorici fino a Ada Lovelace, ad Alan Turing e agli hacker del MIT Model Railroad Club. L’informatica era destinata a progredire, sino a Richard Stallman e Steve Wozniak.

Questi hacker ci hanno messo a disposizione moderni sistemi operativi, linguaggi di programmazione, personal computer e molti altri strumenti tecnologici avanzati che oggi vengono utilizzati nella vita quotidiana.

Come distinguere allora i “buoni” hacker, che ci regalano le meraviglie del progresso tecnologico, da quelli “cattivi” che carpiscono i numeri delle nostre carte di credito?

In origine, il termine cracker fu coniato per indicare gli hacker “cattivi”, distinguendoli da quelli “buoni”. Si disse ai giornalisti che i cracker erano i malintenzionati, interessati unicamente a violare le leggi, mentre gli hacker erano dei bravi ragazzi, con una propria etica. Inoltre, si sostenne, i cracker erano da considerare meno dotati rispetto all’élite degli hacker, capaci unicamente di utilizzare tool e script scritti da costoro senza comprenderne il funzionamento. Sotto l’etichetta “cracker” venivano raggruppati tutti coloro che svolgessero attività illecite con un calcolatore o computer (pirateria del software, sfregio di siti Web, ecc.), essendo (orrore!) ignari della logica di funzionamento dei loro strumenti di lavoro. Ma questo termine è caduto ormai in disuso, probabilmente a causa di un conflitto tra due definizioni (il termine cracker fu utilizzato originariamente per indicare coloro che permettono di piratare il software commerciale violando i diritti d’autore ed effettuano il reverse engineering per vanificare gli schemi di protezione contro la duplicazione), o perché nel frattempo era stata creata una nuova definizione, che comprendeva sia i gruppi di persone implicati in attività illegali con i computer, sia degli hacker relativamente inesperti.

Sono pochi i giornalisti che, parlando di un gruppo di inesperti, si pongono la domanda se sia giusto utilizzare un termine piuttosto che un altro. Il termine cracker è poco familiare alla stragrande maggioranza del pubblico, che è inoltre del tutto ignara degli arcani e delle competenze associate al termine hacker. In genere un giornalista decide di scegliere il termine cracker o hacker senza pensarci più di tanto; talora utilizzerà il termine script kiddie per riferirsi ai cracker, ma tale termine non ha lo stesso impatto sensazionalistico di hacker, evocativo di un mondo misterioso.

Taluni sostengono che esiste una linea di demarcazione netta tra hacker e cracker, ma io ritengo che chiunque sia animato dallo spirito degli hacker sia uno hacker a dispetto delle leggi che può violare.

Questa linea di demarcazione abbastanza incerta tra hacker e cracker è resa ancora più indistinta dalle leggi odierne contenenti restrizioni sulla crittografia e sulla ricerca crittografica. Nel 2001, il professor Edward Felten e il suo gruppo di ricerca della Princeton University erano in procinto di pubblicare un articolo illustrante i risultati di una loro ricerca, in cui si discuteva dei punti deboli di vari schemi di digital watermarking (una tecnica di steganografia). Questa ricerca intendeva raccoglieva una sfida lanciata dal SDMI (Secure Digitale Music Initiative) nel SDMI Public Challenge, che incoraggiava il pubblico a cercare di violare questi schemi di watermarking.

Tuttavia, prima che l’articolo fosse pubblicato, essi furono minacciati sia dalla SDMI Foundation che dalla RIAA (Recording Industry Association of America). Apparentemente, secondo una legge molto restrittiva del 1998 (il Digital Millennium Copyright Act, o DMCA), è illegale fornire tecnologie utilizzabili per eludere i sistemi di protezione del diritto d’autore, o anche solo discuterne. Questa legge è stata utilizzata contro Dmitry Sklyarov, un programmatore e hacker russo, autore di un software che consentiva di eludere degli schemi crittografici estremamente semplici presenti nel software di Adobe e che aveva presentato i risultati delle sue indagini a un congresso degli hacker tenutosi negli Stati Uniti.

Costui fu incarcerato dall’FBI e tale arresto portò a una lunga battaglia legale. Secondo la legge, la maggiore o minore complessità dei sistemi di protezione del copyright non conta; da un punto di vista strettamente tecnico, sarebbe illegale effettuare persino il reverse engineering di uno schema crittografico rudimentale qual è il Pig Latin, o addirittura discuterne, se esso fosse utilizzato come sistema antipirateria.

Chi sono dunque oggi gli hacker e i cracker? Sembra che la legge ostacoli la libertà di parola; ma solo per questo i “buoni” che parlano liberamente devono diventare improvvisamente “cattivi”? Ritengo che lo spirito degli hacker vada al di là delle leggi dello Stato e che, come in qualsiasi gruppo di ricercatori, ci sarà sempre qualche “cattivo” che utilizzerà queste conoscenze per scopi illeciti.

La fisica nucleare e la biochimica possono essere utilizzate per sterminare, ma al tempo stesso sono strumenti di progresso scientifico e forniscono all’umanità farmaci più efficaci. La conoscenza, di per sé, non è né cattiva né buona; il giudizio etico deve riguardare unicamente la sua applicazione. Anche se volessimo, non potremmo sopprimere le conoscenze su come convertire la materia in energia o bloccare il continuo progresso tecnologico della società. Analogamente, non è possibile cancellare lo spirito che anima gli hacker e nemmeno classificarlo o dissezionarlo. Gli hacker continueranno a escogitare sempre nuovi escamotage, costringendoci a studiare e mettere a punto sempre nuove soluzioni per eliminare i punti vulnerabili.

Purtroppo, ci sono molti libri dedicati agli hacker che non sono altro che dei compendi di exploit compiuti da altri. Essi insegnano a utilizzare i tool (creati da altre persone) contenuti nel CD allegato al libro senza spiegare la teoria su cui si basano; il lettore quindi non ne comprenderà la logica né sarà stimolato a crearne dei propri.

Probabilmente i termini cracker e script kiddie non sono del tutto fuori moda.

I veri hacker sono i pionieri, coloro che mettono a punto metodi originali e creano i tool che vengono poi raccolti nei suddetti CD. Tralasciando il problema della legalità e ragionando secondo logica, a ogni exploit corrisponde un patch che consente di difendersi.

Un sistema irrobustito con patch appropriati dovrebbe essere immune rispetto a questa tipologia di attacchi. Gli aggressori che utilizzano unicamente queste tecniche, senza un contributo originale, sono destinati a danneggiare solo gli utenti più indifesi e stupidi. I veri hacker sono in grado di individuare per tempo lacune e punti deboli nel software e creare dei loro exploit. Se decidono di non informare il fornitore di questi punti vulnerabili, possono utilizzare tali exploit per penetrare senza ostacoli anche in sistemi fortificati con opportuni patch e ritenuti “sicuri”.

Se quindi non esistono dei patch per eliminare i punti vulnerabili, che cosa si può fare per impedire che gli hacker individuino nuove lacune nel software e le sfruttino per penetrarvi? Ecco il motivo per cui sono stati costituiti dei team di addetti alla sicurezza informatica: essi hanno il compito di individuare queste lacune e di informarne i fornitori prima che esse vengano sfruttate. C’è una benefica sinergia tra l’attività degli hacker che giocano “in difesa”, dedicandosi alla protezione dei sistemi, e l’attività degli hacker che cercano di violarli. Questa competizione genera una maggiore sicurezza, oltre che tecniche di attacco più complesse e sofisticate. L’introduzione e il perfezionamento dei sistemi di rilevazione dei tentativi di intrusione (IDS) sono un importante esempio di questa sinergia. Gli hacker che giocano in difesa creano IDS da aggiungere al proprio arsenale, mentre quelli che giocano all’attacco sviluppano tecniche per eludere gli IDS, stimolando a loro volta lo sviluppo di sistemi IDS più potenti ed efficaci.

Il risultato netto di questa interazione è positivo, perché produce individui più preparati e scaltri, una maggiore sicurezza, dei software più stabili, originali tecniche di soluzione di problemi; e crea persino nuovi posti di lavoro.

Scopo di questo libro è di fornire informazioni sull’autentico spirito che anima gli hacker. In esso esamineremo varie tecniche di hacking, da quelle entrate nel libro della storia a quelle più recenti, dissezionandole per comprenderne il funzionamento e i motivi per cui sono efficaci. Presentando le informazioni in questo modo, intendiamo consentire al lettore di comprendere e apprezzare le attività di hacking, ed eventualmente stimolarlo a migliorare le tecniche esistenti o addirittura inventarne di nuove. Confido che questo libro riesca a stimolare la curiosità scientifica del lettore e spronarlo a contribuire in qualche modo all’arte dello hacking… da qualunque parte della barricata decida di stare.

Il libro “L’arte dell’hacking – Le idee, gli strumenti, le tecniche degli hacker”è disponibile nelle migliori librerie e può essere acquistato online

L'autore

  • Redazione Apogeonline
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