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L’Aquila, le mani sulla città ferita

22 Aprile 2009

L’Aquila, le mani sulla città ferita

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Cinismo e interessi criminali già aleggiano sulla ricostruzione dell'Abruzzo, colpito il 5 aprile scorso da un sisma distruttivo. I cittadini non potranno fidarsi che di loro stessi, ma per farlo hanno un alleato prezioso: la rete, dove convogliare notizie, immagini, opinioni, testimonianze. Per non abbassare la guardia

Un hacker, di cui non si fa il nome per comprensibili motivi, è riuscito ad intercettare questo scambio di email, e ha pensato di metterle in rete come “azione preventiva”.

Egregio Onorevole,
sono un costruttore edile, fortemente interessato alla ricostruzione dell’Aquila. Non sono mafioso perché, come lei ben sa, la mafia non esiste. Sono una persona che si preoccupa del bene di tutti: ridare una casa ai terremotati, sostenere la carriera di politici illuminati come lei, rimettere in moto l’economia, e infine fare i miei giusti profitti. Se ci muoviamo bene, tenendo presenti gli eventi precedenti del Molise e di San Giuliano, l’affare abruzzese può essere bello grosso. Il punto chiave, come mi hanno confermato esperti sismologi e studiosi della complessità e delle previsioni stocastiche che ho consultato allo scopo, è che un sisma della potenza di quello appena avvenuto è ben difficile che si verifichi di nuovo nell’arco di 50 anni, anzi è molto più probabile che passeranno due o tre secoli, come è avvenuto finora.
Quindi non c’è nessun bisogno di costruire edifici di alta qualità e resistenza sismica. Sarebbero soldi sprecati, i nostri soldi. Possiamo continuare ad usare cementi depauperati e acciai semplificati, con notevole risparmio. Possiamo vendere le case nuove a prezzi più alti spacciandole per case fatte secondo i criteri più avanzati. Ci basterà fare infissi a buona tenuta e mettere qualche pannello solare, per dare alle case un aspetto ecocompatibile. Del resto ciò che conta per la gente è avere un tetto e viverci spendendo il meno possibile. Di quello che c’è dentro i muri alla fine nessuno ci capisce niente. Sarà necessario mettersi a posto dal punto di vista formale e burocratico, ma basterà assicurarsi i servizi di qualche compiacente funzionario per ottenere una documentazione a prova di bomba, anzi, di terremoto, anche se non corrisponde alla realtà.
Se non avviene nessun sisma forte entro 50 anni siamo a posto, perché allora si potranno demolire e ricostruire le case basandosi sul naturale invecchiamento del cemento, e quindi non resterà traccia di quanto abbiamo fatto, nessuno se ne sarà nemmeno accorto, nessuno avrà subito danni. L’unico rischio è che ci sia un forte sisma a breve, e che crolli tutto. Contro questa eventualità non possiamo fare nulla. Possiamo solo cercare di renderci invisibili e introvabili, possiamo costituire una società immobiliare che gestisce il tutto subappaltando i lavori a piccole imprese dell’est europeo, e dopo un paio di anni sciogliere la società in modo da disperdere tracce e responsabili. Questi stessi criteri si possono usare per le new town, che in tal senso potrebbero rappresentare un altro ottimo affare.

Caro ingegnere,
Ho ricevuto la sua del xx_xx_xxxx. Effettivamente l’idea è interessante e di buon senso, perché anche nei forti terremoti precedenti, non è mai successo che si siano ripetuti a breve, quindi potremmo stare piuttosto sicuri. Il problema è che si stanno costituendo gruppi di cittadini che vogliono vederci chiaro, per ora in quello che è stato fatto prima del terremoto, ma temo che vorranno impicciarsi anche di ciò che faremo dopo. Ah, i bei tempi in cui i cittadini ci delegavano tutto e pensavano a farsi gli affari loro! Penso perciò che dovremo muoverci con grande attenzione, per accontentare i gruppi di pressione senza scontentare noi stessi.
Forse la cosa migliore è cominciare a costruire bene, invitando rappresentnati di cittadini e stampa a controllare tutto, con tale insistenza che loro stessi si stuferanno e ci diranno che si fidano, e poi, quando sarà passato un po’ di tempo, l’emozione del sisma sarà sopita e la gente ricomincerà a pensare ai suoi interessi di ogni giorno, potremo tornare alle vecchie abitudini senza che nessuno se ne accorga. Potremmo interrompere i lavori in corso, dicendo che sono finiti i soldi, e poi riprenderli dopo aver ottenuto nuovi finanziamenti, subappaltando a piccole imprese diverse dalle precedenti, e finire i lavori con i criteri che più ci convengono, magari anche cambiando i progetti originari, per rendere gli edifici più redditizi. Per le new town ha ragione, ma ne riparleremo a tempo debito, anche perché lì ci sono interessi molto più forti e “nazionali”.

Questo scambio di lettere l’ho inventato io, per sfogare il dolore e la rabbia della vicenda aquilana. È una fantasia verosimile, perché lettere e telefonate del genere si staranno già scambiando fra gli interessati. Già nei primi anni Sessanta denunciavo inascoltato gli scempi edilizi che stavano stravolgendo la bella città del mio Abruzzo, immergendola in una periferia speculativa e cartongessosa che nulla più aveva dell’antica nobiltà architettonica e urbanistica che i 99 paesi fondatori avevano donato all’Aquila, e che l’Aquila a loro restituiva con modelli di alta qualità ancor oggi godibili in paesi come Santo Stefano di Sessanio. Il terremoto attuale ha tirato giù proprio quel modello edilizio speculativo, dimostrandone la criminale fragilità.

Come qualcuno ha detto, è stato il primo terremoto web. Io insegno all’Accademia dell’Immagine dell’Aquila, ora semidistrutta, e prima con gli sms, poi con Facebook siamo riusciti a metterci in contatto da Roma con il personale della scuola, i dirigenti, gli allievi. Del modo in cui il web è stato usato per convogliare aiuti e diffondere notizie diverse da quelle dilaganti sui mass media, se ne sono accorti tutti. Ma il web ci potrà servire anche per la ricostruzione. Ci potrà aiutare, al di fuori dai media ufficiali, a far sentire la nostra voce e la nostra presenza accanto a coloro che metteranno mano alla ricostruzione, a far girare notizie, immagini, opinioni, testimonianze. Ora è il momento di vigilare, di non delegare, di non tornare alle nostre routine, di non permettere di tornare alle loro routine, di usare i nostri strumenti, che sono creatività, comunicazione, attenzione, immaginazione, racconto, con cui possiamo tenere alta l’attenzione su ciò che succede e succederà, anticipare le mosse, fare di tutto per evitare modelli di ricostruzione come il Belice o l’Irpinia.

Per costruire le due lettere ho usato due strumenti di problem solving strategico: “come peggiorare” e cambiamento di punto di vista, e uno strumento concettuale sistemico, come l’osservazione dei trend. Ho cercato di mettermi nella mente di un costruttore speculatore e di un politico mazzettaro (e cioè dei personaggi che già si stanno fregando le mani gongolanti di fronte alla valanga di fondi che farà seguito al terremoto) e di pensare il peggio che mi fosse possibile, dato che a certe perversità noi comuni cittadini non riusciamo ad arrivarci. Ho cercato di pensare alla probabilità che un sisma di eguale intensità possa verificarsi a breve. Poiché la frequenza di grandi sismi nella zona va dal secolo (Marsica, 1915) ai tre secoli (L’Aquila, 1703) e il cemento armato dura al massimo cento anni, ragionando in modo del tutto cinico non ci sarebbe bisogno di ricostruire in modo antisismico. Il problema è stabilire se una casa è solo una macchina speculativa o è una tana, un nido in cui rifugiarsi e sentirsi protetti.

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