Da anni ormai i videogiochi vengono facilmente associati a disturbi comportamentali dei giovani, come aggressività, violenza, isolamento e alienazione. Spesso però accade che questi ragionamenti provengano da chi probabilmente non ha mai giocato o da chi cede agli eccessivi allarmismi che fanno notizia. E così i media, prima fra tutti la stampa, diffondono stereotipi e luoghi comuni, divulgando spesso l’equazione “videogiochi=violenza” e scoraggiando il più delle volte l’acquisto del game da parte di un pubblico adulto (leggi mamma e papà). Ma cerchiamo di andare oltre l’aspetto superficiale e i facili sensazionalismi mediatici.
Innanzitutto, occorre precisare che per ogni videogame è prevista una classificazione in base all’età (PEGI) per la protezione dei minori, e che la maggior parte dei giochi in commercio non è violenta. Per intenderci: «Grand Theft Auto sta ai giochi come Pulp Fiction sta ai film» nelle classificazioni benpensanti. Lawrence Kutner e Cheryl K. Olson, in uno studio intitolato Grand Theft Childhood, suggeriscono che i videogiochi violenti non inducono a comportamenti aggressivi nei giovani, ma al contrario hanno – insieme agli altri generi di videogame – importanti effetti a livello sociale e dell’apprendimento. Secondo Nina Huntemann, docente e co-editrice del libro Joystick Soldiers, la nuova puntata di Call of Duty (Modern Warfare 2), titolo che ultimamente ha fatto molto discutere, «rende i giocatori più consapevoli dell’uso della violenza per risolvere conflitti globali e li anestetizza alle vere conseguenze della guerra». Ma perché i ragazzi passano tante ore davanti ai videogame? E soprattutto, che cosa imparano?
Generazione Nativi Digitali
Secondo Marc Prensky (autore di Mamma non rompere sto imparando), giovani e adulti di oggi appartengono a due generazioni differenti: Nativi Digitali vs Immigrati digitali. Di fatto, anche se sul concetto dei nativi digitali si potrebbe discutere, secondo lo scrittore americano, i giovani sono immersi nella tecnologia digitale e pertanto sono i nuovi “parlanti nativi” del linguaggio dei videogiochi, del computer e di internet. Mentre gli immigrati digitali sono quelli che, arrivati “più tardi”, si sono dovuti adattare al nuovo ambiente conservando, tuttavia, il loro “accento” come segno distintivo del passato. Ne consegue che le differenze tra le generazioni potrebbero facilmente influenzare il modo di pensare e di processare le informazioni. E questa potrebbe essere, forse, una delle chiavi di lettura plausibili per l’ostilità dei genitori verso i videogame.
Ciò che probabilmente gli adulti (e spesso anche gli educatori) non comprendono è che i ragazzi giocando e avanzando di livello, capiscono che in qualche modo stanno migliorando: nei giochi più complessi, in particolare, ci sono delle missioni (o quest) da svolgere in cui è facile immedesimarsi sul piano personale ed emotivo. Proprio in funzione di questo obiettivo da raggiungere, i videogame obbligano i giocatori a prendere decisioni e ad assegnare priorità. «Tutti i benefici intellettuali dei videogiochi derivano da questa virtù fondamentale», scrive Steven Johnson in Tutto quello che fa male ti fa bene, «perché imparare come pensare significa prendere le giuste decisioni: valutare prove, analizzare situazioni, consultare gli obiettivi a lungo termine, e poi decidere. Nessun’altra forma di cultura popolare impegna direttamente l’apparato decisionale del cervello allo stesso modo». Giocare ai videogame aiuta a sviluppare quella che i neurologi C. Shawn Green e Daphne Bevalier chiamano «attenzione visuale selettiva»: i giocatori si trovano spesso in situazioni in cui accadono diverse cose nello stesso momento e ciò li induce a compiere delle scelte, filtrando le informazioni ritenute superflue.
Le regole e la socializzazione
I giocatori devono anche decifrare le regole e capire la logica del gioco, indagare e esplorare, imparare dagli errori e dall’esperienza. Ma spesso le regole sono implicite e il gioco emula un mondo reale, quello che Johnson definisce «fisica del mondo virtuale». Gli appassionati di The Sims sanno, per esempio, che gli amici rimarranno di più alla festa se c’è musica e divertimento. Gli appassionati di giochi di guerra hanno di sicuro imparato quando utilizzare un’arma o l’altra. Insomma, si crea una sorta di apprendimento del mondo reale in termini di fisica, biologia o comportamento collettivo.
Marc Prensky in A lesson for parents: how kids learn to cooperate in videogames ci spiega come i videogiochi facilitino la cooperazione tra i giovani e prende in esame Toontown, il primo Mmorpg progettato per i più piccoli. In Toontown ci sono molti compiti che il giocatore, indipendentemente dall’esperienza acquisita durante il gioco, non può svolgere da solo e così diventa indispensabile lavorare insieme. Stesso schema replicato anche in piattaforme più adulte, come ad esempio World of Warcraft e Warhammer. È, di certo, una caratteristica tipica dei Mmorpg in generale: non essendo videogiochi di tipo stand-alone, stimolano la cooperazione e l’aiuto reciproco per la conquista dell’obiettivo di squadra.
E non è tutto: da ben tre studi internazionali (pubblicati su Personality and Social Psychology Bullettin) condotti negli Stati Uniti, in Giappone, a Singapore e in Malesia, è emerso che alcuni videogame (la ricerca si riferisce a quelli prosociali) sono molto utili alla crescita dei giovani e al loro processo di socializzazione, poiché studiati in modo da indurre i bambini a riprodurre nella vita reale i modelli di comportamento appresi durante i giochi.
Curiosità e apprendimento
I game designer, inoltre, introducono nei videogiochi sempre più elementi di apertura che in qualche modo stimolano l’immaginazione del giocatore. In fondo il segreto della creatività è la curiosità e la scuola spesso non insegna ai ragazzi ad essere curiosi. In molti casi, quelli meno virtuosi, non insegna neanche a pensare ma, il più delle volte, solo a memorizzare informazioni in maniera isolata, e non a connettere e manipolare i fatti tra loro. In questi casi a supplire ci pensano i videogiochi. In particolare, i videogame di avventura e di simulazione, come SimCity o RollerCoaster Tycoon sviluppano il pensiero strategico e le abilità di pianificazione nei giovani o possono insegnare loro ad amministrare il denaro, come in Financial Football.
In una recente ricerca pubblicata su Perception, Rolf Nelson, professore di psicologia al Wheaton College di Norton, nel Massachusets, ha notato l’influenza di alcuni videogiochi sullo sviluppo cognitivo. Il ricercatore ha osservato come due generi diversi di videogiochi (di azione e di strategia) possano contribuire, in maniera differente, allo sviluppo cognitivo: i giochi di strategia sembrerebbero influire sulla precisione mentre gli action games sulla rapidità di risposta. Inoltre James Rosser, chirurgo del Beth Israel Medical Center, ha sottolineato in uno studio come i videogame migliorino la coordinazione mano-occhio (hand-eye coordination), tant’è che suggerisce ai suoi colleghi di giocare prima di operare, in modo da migliorare le prestazioni e ridurre la possibilità di errore.
Negli Stati Uniti i videogiochi sono stati introdotti nel piano di studio delle scuole poiché ritenuti strumenti adatti ad educare il pensiero critico e il problem solving, contribuendo allo sviluppo cognitivo dei giovani. E non si tratta di semplice edutainment, del tipo “ripeti e impara”, ma di videogame più complessi: GamesParentsTeachers è ricco di informazioni su alcuni giochi e di consigli su come utilizzarli in modo istruttivo. A quando una riflessione approfondita sul tema anche nel mondo dell’istruzione italiana?