Tra i mille rivoli che oggi danno forma alle varietà di giornalismi possibili, «occorre rivelare ben più che il prodotto finito», scrive David Cohn, co-fondatore di Spot.us, esperimento di giornalismo collaborativo nella Bay Area di San Francisco. E paragonando il giornalismo agli scacchi, aggiunge, «se il contenuto è re e la collaborazione regina, la trasparenza è la scacchiera stessa». Una pratica resa ancor più inevitabile (imposta?) dall’intreccio continuo tra media tradizionali e digitali a cui pur volendo è impossibile sfuggire.
Dal raffinamento della notizia grezza alla ricerca e verifica delle fonti, dalla stesura del pezzo (o altri supporti) alla sua continua revisione, un tale processo si rivela spesso tortuoso e complesso. Per non parlare delle email avanti e indietro, o delle loro angosciosa assenza, del setacciar via il rumore che infesta troppi spazi online, delle piste suggerite casualmente dai social media rivelatesi poi enormi perdite di tempo, e via di seguito nel turbinio della Rete. Ah, poi ci sono gli inevitabili impicci tecnici, visto che oggi giornalismo significa anche saper addomesticare piattaforme e strumenti elettronici, o quantomeno litigare con il webmastro o l’administrator di turno. E quand’anche si operi solo online o neppure strettamente nel contesto del giornalismo investigativo, capita comunque che si debba scendere in strada, seguire eventi e magari “postare” dal vivo, fare telefonate in giro e quant’altro a stretto contatto con la comune quotidianità. Ci si sporca eccome, a fare informazione e condividere conoscenza, finanche nell’era di Internet.
Eppure tutto ciò – che nelle redazioni sia online sia tradizionali di una certa portata è solo la punta dell’iceberg di un’attività caotica e frenetica, un giorno dopo l’altro – non viene mai lontanamente rivelato o immaginato dal grande (o piccolo) pubblico, ormai abituato a sorbirsi copertine luccicanti e titoloni spiccioli a scatola chiusa. Si preferisce il prodotto ben finito e impacchettato. Arraffato al volo, come una lattina di fagioli ribolliti al supermercato, senza leggerne gli ingredienti e verificarne l’effettivo valore nutritivo. E che dire della conversazione diffusa innescata poi dalla Rete? Gli strascichi di commenti e suggerimenti dei lettori a cui ogni giornalista degno di questo nome è chiamato a replicare. O le modalità con cui il pezzo viene ripreso e contestualizzato negli anfratti della blogosfera, con possibilità di ulteriori aggiustamenti diretti (risa o imprecazioni incluse).
Né vanno dimenticati gli annessi e connessi legati al processo del freelancing, pratica da sempre assai diffusa nel giornalismo anglosassone e ora in ascesa anche in Italia sull’onda dei tagli occupazionali e la spinta di Internet. Ce lo rammenta ancora David Cohn: «Oggi le comunicazioni tra editor e aspirante autore che includono la proposta di un articolo, le relative contro-proposte e gli aggiustamenti, i tempi di consegna e la stesura finale, sono assai più rapide ma avvengono comunque in una relazione uno-a-uno. Il pubblico non è mai cosciente di queste fasi. Né vede l’attesa angosciosa delle risposte, delle correzioni o dell’assegno finale».
Già, altro capitolo delicato rimane quello delle questioni finanziarie, del reperimento e della ripartizione del budget che oramai interessa ogni sorta di publishing venue. In tal senso, lo stesso Spot.us sta provando a buttar giù un’altra barriera: sono i contributi (generalmente piccoli) dei singoli cittadini a finanziare specifici articoli o inchieste, con monitoraggio e intervento pubblico di ogni ulteriore passaggio editoriale e finanziario dell’operazione. In breve, quel che viene definito community-funding reporting.
Al tutto va poi aggiunta una riflessione di ordine più generale, sintetizzata recentemente da David Weinberger: «La trasparenza è la nuova obiettività; nell’odierna ecologia della conoscenza va rimpiazzando parte del vecchio ruolo svolto dall’obiettività». Secondo il noto autore e osservatore della Rete, quel che una volta prendevamo a scatola chiusa come obiettività per l’autorevolezza e il curriculum di un autore, oggi viene messa alla prova dalla citazione di fonti e riferimenti, dalle revisioni dell’opera, dai commenti altrui – elementi che tutti noi possiamo, anzi siamo chiamati a, verificare direttamente e in tempo reale. La trasparenza prospera e si moltiplica in un medium (Internet) fatto di correlazioni continue, laddove invece nel cartaceo o in radio-Tv era l’oggettività pre-confezionata a farla da padrone. «All’estremo limite della conoscenza — nell’analisi e nella contestualizzazione che oggi i giornalisti ci dicono essere il loro valore concreto — noi vogliamo, necessitiamo, possiamo avere e pretendiamo trasparenza», conclude David Weinberger.
Non trattandosi di tematiche nuove per chi segue questo spazio, qualcuno saprà sicuramente suggerire altre istanze di trasparenza giornalistica (basta usare lo spazio sottostante dei commenti, grazie!). Come pure vanno citate valide obiezioni alla sua attuazione assoluta all’interno della deontologia odierna: l’energia e il tempo per occuparsene in un mestiere spesso frenetico, le noiose fasi di editing, riscrittura, verifica di un pezzo/media che pare inutile dettagliare al pubblico. Scenari spesso complicati anziché facilitati dall’ubiquità della Rete, come evidenziato sopra. Ma resta il fatto che il giornalismo è un processo e non un prodotto, un verbo e non un sostantivo. E nell’era della partecipazione diffusa anche il mestiere “sporco” del giornalista non può non farsi sempre più visibile, verificabile, trasparente. Pena l’ulteriore distacco dalla gente, e dal loro portafoglio.