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La privacy fa cilecca

25 Giugno 2007

La privacy fa cilecca

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Google maglia nera nel rapporto di Privacy International sulle maggiori aziende Internet, anche per via di Street View e dell’eccessiva consolidazione. Non mancano le polemiche e le speranze per policy più stringenti

Una corsa al ribasso nella tutela della privacy. Questo il succo del rapporto dell’ente non governativo inglese Privacy International sulle maggiori aziende Internet, diffuso nei giorni scorsi e frutto di sei mesi di rilevazioni incrociate. Pur trattandosi di un’indagine puramente consultiva (il rapporto completo verrà pubblicato in autunno), non si manca di sottolineare come siamo vicini al minimo comune denominatore in fatto di riservatezza. Rispetto alla visione dei primi passi di Internet, quando la privacy pareva imporsi addirittura come differenziatore del mercato emergente, la realtà del 2007 si rivela ben diversa: le grandi aziende del settore competono nel raccogliere una marea di dati personali, difettano di trasparenza sul loro utilizzo e lasciano poche scelte all’utente sui meccanismi di tutela. Se ci aggiungiamo che la cerchia dei big va restringendosi nei new media proprio come negli old media, il quadro complessivo appare tutt’altro che sereno per noi utenti.

Lo studio finora realizzato, intitolato Privacy Ranking of Internet Service Companies, elenca i soggetti migliori e peggiori coprendo un po’ tutto l’arco del Web 1.0 e Web 2.0, dai motori di ricerca alla email, dall’e-commerce al social networking. Tra i siti studiati, spiccano aziende quali Amazon, Apple, BBC, Microsoft, Google, Skype, Wikipedia, Yahoo! e un’altra ventina di nomi qualificati. Le fonti utilizzate sono sia pubbliche (articoli a stampa, blog e spazi online, i testi delle policy dei vari siti, documenti relativi a richieste governative Usa) sia private (analisi tecniche, opinioni di ex e attuali dirigenti, interviste con rappresentanti aziendali). Un totale di venti parametri per fare la fotografia delle attuali “best and worst practice” in tema di privacy online.

Ebbene, indovinate un po’? La maglia nera di questa classifica spetta a Google. Spesso le sue tecnologie vengono attivate senza adeguate consultazioni pubbliche, l’azienda in passato ha ignorato le preoccupazioni degli utenti, ogni annuncio di nuovi servizi include pratiche di sorveglianza. Queste le motivazioni alla base della scelta di Privacy International, i cui autori si dicono coscienti del fatto che la decisione di mettere Google in coda sarà controversa, ma «in tutta la nostra ricerca abbiamo rilevato mancanze e ostilità nel suo approccio che vanno ben oltre quelle delle altre organizzazioni». Oltre all’uso aggressivo di tecnologie potenzialmente invasive, il voto negativo dipende anche dalla diversità e specificità dei prodotti Google e dalla capacità di scambiare dati incrociati, insieme al dominio di mercato rispetto al numero di utenti che ne fanno uso regolare. La pronta replica di Nicole Wong, responsabile delle questioni sulla privacy per Google, sostiene che l’indagine «è poco accurata» e che l’azienda non ha avuto possibilità di rispondere pubblicamente alle critiche ivi contenute (né mancano ulteriori strascichi polemici tra i due fronti).

Ma non è che gli altri grossi nomi stiano messi granché meglio. Le mancanze di Microsoft, Skype e YouTube sono «serie», quelle di LinkedIn e MySpace «notevoli», mentre Yahoo!, Apple e Facebook pongono una «sostanziale minaccia». Una certa «attenzione generale alla privacy», ma con la necessità di chiare migliorie, viene riconosciuta solo a BBC, Wikipedia, eBay, Last.fm e LiveJournal. Per ora a nessuno tocca la maglia verde del primo in classifica, le aziende chiaramente privacy-friendly, e si spera che nei prossimi mesi questo rapporto consultivo registri sensibili mutamenti per garantire maggiori tutele agli utenti: «Con uno forzo minimo la maggioranza dei siti possono migliorare le prestazioni di almeno un grado», sottolinea infatti lo studio. Pur insistendo sul fatto che non esistono motivi per ignorare policy più stringenti né difettano certo le tecnologie e le capacità.

Nello specifico, la posizione di Google (e le annesse controversie) non giunge comunque inattesa tra i navigatori online, anche tra quelli più distratti. Nei giorni scorsi su C-Net l’articolo più letto chiedeva ai lettori se le «manovre di Google non ti fanno venire la pelle d’oca», puntualizzando le rilevazioni del rapporto di Privacy International nonché le controversie suscitate in particolare dal servizio Street View, fino a porre la questione nel contesto più ampio della iper-intrusione nel privato veicolata dal web odierno. Analoghe considerazioni proponeva un recente resoconto del New York Times, sottolineando le stesse intrusioni e chiedendosi dove porteranno tutte queste iniziative e acquisizioni continue della grande G: dobbiamo davvero rassegnarci a guardare Google impadronirsi si Internet? E cosa ne farà mai di tutti questi dati? Come la mettiamo con la trasparenza e la privacy? C’è anche chi ha stilato accurate liste sulla molteplicità di servizi Google di cui sembra non possiamo più fare a meno, a ricordarci che questo possiede «la mia anima e altre dieci cose». Mentre Hitwise segnala che il 64,8% di tutte le ricerche online negli Stati Uniti avviene tramite Google, record raggiunto nell’ultimo mese, con un distante Yahoo! Search al 21,7%. E vista la crescita inarrestabile del titolo a Wall Street (518,84 dollari ad azione dopo l’atteso annuncio della nuova partnership con Salesforce.com), anche qui ci si chiede se e quando potrà fermarsi questa corsa irresistibile, ribadendo come il ruolo di Google nel nostro uso quotidiano di Internet sia «diventato davvero pervasivo».

Vista l’aria che tira, insomma, non è certo il caso di liquidare la questione privacy con un’alzata di spalle, con un qualunquista “tanto non ho nulla da nascondere”. Né conviene cedere alle lusinghe dell’accesso a servizi scintillanti (o presunti tali) in cambio di un Big Brother così diffuso e meticoloso. Pur senza diventare paranoici, è altrettanto importante è tutelare la diversità e l’indipendenza dell’offerta online, evitando scenari da giardini recintati. «La ricchezza di quel che il mondo corporate definisce Web 2.0 è ormai a rischio», sostiene Trebor Scholz, studioso dei media e docente in Usa. «Alla fin fine, questa corsa verso la consolidazione non è utile neppure per business, perché rende gli ambienti online sempre meno eccitanti». A rimetterci, dunque, siamo sempre noi utenti, ai quali (notoriamente) si deve buona parte dei contenuti liberamente usati dalle aziende per incrementare tale business. E in quanto tali meritiamo maggiore attenzione, anche e soprattutto rispetto alla riservatezza online. «Oggi ogni dato personale è reperibile sul web, e tutti possono avervi accesso per sempre», aggiunge l’esperto di sicurezza Bruce Schneier. «Esistono quindi profonde preoccupazioni a livello filosofico e pratico sulla privacy che, come società nel suo insieme, dobbiamo affrontare in maniera adeguata».

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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