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La nascita di VANS

12 Giugno 2024

La nascita di VANS

di

Paul van Doren, il fondatore di uno dei più celebri marchi di calzature in tutto il mondo, racconta come ha avuto inizio la sua avventura di imprenditore.

Grandi decisioni e momenti decisivi

Ho sempre saputo che, fondamentalmente, esistono solo due tipi di persone: quelle che ti spiegano per filo e per segno i motivi per cui una certa cosa non può essere fatta, e quelle che invece iniziano subito a sfornare idee per completare il compito assegnato. Di solito mi bastano due minuti dall’incontro con una persona per capire in quale categoria rientra!

Sin dal primo giorno, esigevo che le persone con cui lavoravo pensassero positivamente: non ero interessato a collaborare con qualcuno che mi dicesse che una cosa non poteva essere fatta, nemmeno se avesse avuto ragione. Se qualcuno mi avesse detto che non era possibile entrare nel cortile, avrei risposto in ogni caso: Passa sopra la recinzione. Non volevo sentir dire non si può, perché lamentarsi che un compito è impossibile è soltanto una perdita di tempo: se non sei il primo a credere di poter avere successo, non riuscirai mai a ottenerlo. È così semplice!

In realtà, ho scoperto che l’unico motivo per cui determinate cose non vengono fatte è solo perché nessuno vuole farle. Ricorda le mie parole: se c’è la volontà, ci sarà sempre un modo di giungere al traguardo. Questo non significa che tutto funzioni sempre alla perfezione o che sia possibile vincere ogni singola sfida: c’è sempre la possibilità di fallire. Ogni giorno stiamo lanciando dei dadi, ma c’è qualcosa che nella vita non costituisca un azzardo? E se vale la pena rischiare, non vale la pena anche compiere qualche sforzo?

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Lasciare il mio lavoro da Randy’s fu un enorme azzardo: non avevo idea di quale altro lavoro avrei potuto fare, visto che tutto quello che avevo fatto era occuparmi di scarpe di tela. Avrei davvero potuto iniziare una carriera all’età di trentacinque anni? Le prospettive erano scoraggianti.

Mentre tornavo a casa, la realtà mi colpì duramente: avevo chiuso un portone e non ci sarebbe stato modo di tornare indietro. Pensai: cosa avrei fatto adesso? Avevo paura di raccontare tutto quanto a Dolly e ai bambini. Per fortuna, mia madre mi aveva insegnato a gestire i soldi sin da quando ero piccolo, così avevo messo da parte un bel po’ di risparmi in California. Finanziariamente, saremmo stati bene finché non avessi trovato un altro impiego.

L’appoggio della famiglia

Quando tornai a casa, chiesi a Dolly di accomodarsi sulla sua poltrona preferita, riunii i bambini facendoli sedere sul focolare del camino e comunicai loro che papà era disoccupato.

Con suo immenso merito, Dolly non si fece prendere dal panico. Aveva già accettato il rischio sposando un ragazzo olandese di cui suo padre non era così sicuro, perciò non se la filò a gambe levate. Fece soltanto un respiro profondo e disse: Ok. Immagino che per un po’ a cena mangeremo fagioli cotti.

I bambini, naturalmente, non capirono davvero cosa stesse succedendo, o quanto la situazione potesse diventare grave. Presero spunto da me e Dolly che, dietro tacito accordo, ci comportammo come se la mancanza di un lavoro fosse solo un piccolo ostacolo.

Dissi alla mia famiglia che avevo qualche idea, ma sottolineai che non ci sarebbe stato spazio per domande come posso avere questo? o posso avere quello?. Tutti capirono che non dovevano chiedere nulla: dovevamo portare pazienza e attendere tempi migliori.

Sapevo con certezza di aver fatto la cosa giusta licenziandomi, ma non mentirò: ero decisamente spaventato. Il futuro era un immenso buco nero nell’ignoto.

Il destino si chiama Giappone

Il destino si rivelò essere dalla mia parte, grazie al cielo. Serge D’Elia, oggi un buon amico, mi chiamò dal Giappone due ore dopo, quella stessa sera. Una coincidenza? Forse. Ma dopo aver riattaccato, mi ritrovai a credere nei miracoli.

Serge aveva ascoltato la mia storia, mi aveva lasciato sfogare la rabbia per l’ingiustizia e mi aveva rassicurato che tutto sarebbe andato bene. Parlare con lui fu un vero e proprio sollievo, un momento per prendere fiato, per pensare chiaramente, per elaborare strategie. Serge era una persona intelligente e un uomo d’affari scaltro: sapeva andare al centro di una questione e suggerire linee d’azione meglio di chiunque altro conoscessi. Pensai che, se qualcuno avesse potuto aiutarmi a capire cosa fare della mia vita, quella persona era proprio Serge.

Dopo aver parlato per un po’, mi chiese se volessimo incontrarci per discutere dei possibili piani per il futuro. Pensai erroneamente che sarebbe venuto per una visita durante il suo prossimo viaggio negli Stati Uniti. Invece, mi disse che mi avrebbe mandato un biglietto aereo per recarmi in Giappone la settimana successiva e che avrebbe prenotato un biglietto aperto per il mio ritorno.

Rimasi scioccato. Sembrava tutto fantastico! Non ero mai stato all’estero prima, ma sapevo che quello per il Giappone era un lungo volo, che mi avrebbe lasciato molto tempo per pensare alla mia situazione. Gli fui estremamente grato per la sua generosità. Qualche giorno dopo, arrivarono i biglietti.

Il primo investimento

Quando atterrai, Serge era lì ad aspettarmi e mi portò a casa sua a Kobe. Per cinque giorni ci scambiammo idee, la più ovvia delle quali fu quella delle sneaker. Dopotutto, fare scarpe di tela era quello che sapevo fare meglio; anzi, era l’unica cosa che sapevo fare. Dopo vent’anni, avevo imparato ogni aspetto del business delle sneaker: avrei potuto realizzarle anche mentre dormivo! Suggerii così di avviare una piccola fabbrica di calzature sportive nel sud della California.

La maggior parte degli affari di Randy’s era ancora nell’est, quindi la nuova impresa avrebbe dovuto essere piccola e locale. Avevo la possibilità di assumere il personale che volevo, di costruire la mia fabbrica da zero e di gestire l’attività come ritenevo opportuno (senza dover dare la caccia ai piccioni): ero certo che l’azienda sarebbe stata un successo! Serge era ricco e alla ricerca di un investimento valido e redditizio. Ci conoscevamo da più di dieci anni e si fidava di me.

Poteva funzionare.

Dopo aver discusso a fondo le nostre opinioni su affari, etica e principi, Serge e io fummo certi di avere molto in comune. Serge si fidava delle mie abilità, ma soprattutto credeva in me. Rimasi un po’ sconcertato da tutto quello che stava succedendo: ero lusingato, certo, ma anche terrorizzato all’idea di avviare una mia attività.

Sapevo però che sarei stato un pazzo a non cogliere questa opportunità e perseguirla prima che Serge cambiasse idea. Serge accettò di investire i 250.000 dollari di cui avrei avuto bisogno per avviare l’attività. Ci mettemmo in moto e nacque la Van Doren Rubber Company.

E lo stabilimento?

Il volo di ritorno fu lungo quanto il volo di andata e mi lasciò altro tempo per pensare. In tutta onestà, non avevo mai considerato di aprire una mia attività di scarpe e di competere con Randy’s, per non parlare di Keds e Adidas, aziende che erano sul mercato da sempre. Non avevo mai avuto quel tipo di ambizione (e anche se l’avessi avuta, non avevo certo i mezzi finanziari per avviare una società).

Ora potevo farlo.

Sin dalla nostra prima discussione sull’azienda, Serge e io ci impegnammo a produrre scarpe dall’inizio alla fine e soprattutto a farle bene. All’inizio, il nostro processo di produzione e di evasione degli ordini sarebbe stato semplice: i dipendenti avrebbero realizzato le scarpe in fabbrica e noi le avremmo vendute direttamente dal negozio annesso allo stabilimento.

Oltre a Dolly e i bambini, non avevo nessun altro da informare. Sicuramente non volevo che a Bob giungesse la notizia di un nuovo concorrente in città! Dovevo mantenere segreti i miei piani il più a lungo possibile, anche perché Jimmy e Gordy lavoravano ancora per Randy’s.

Dopo aver presentato tutti i documenti necessari, era giunto il momento di predisporre la fabbrica dove avremmo prodotto le scarpe.

Non trovai stabilimenti in vendita, quindi dovetti iniziare completamente da zero.

Un affare di famiglia

In poco tempo, individuai una comoda sede a East Broadway ad Anaheim, dove affittai un enorme magazzino su un solo piano. Avrei dovuto fare i conti con un mucchio di piccole strutture interne, ma l’edificio aveva travi alte e solide e un tetto ad arco che in qualche modo riusciva a sostenersi anche senza colonne o pali nel mezzo dei locali. L’aspetto migliore era che non c’erano scale da salire. Il magazzino era brutto e fatiscente, ma con qualche opera di ristrutturazione sarebbe potuto diventare gradevole.

Come al solito, la nuova impresa fu un affare di famiglia. I genitori di Dolly e suo fratello volarono in California ad aiutarci. Angus e nostra figlia Taffy furono incaricati della rimozione dei detriti; i miei fratelli Jimmy e Paul, il fratello di Dolly, Danny, e i suoi amici si sarebbero invece occupati di tutto ciò che aveva a che fare con la carpenteria e l’edilizia. Stevie era il fattorino e io il lacchè; più tardi, quando si presentò l’arduo compito dell’imbiancatura, noi due fummo promossi alla squadra di tinteggiatura.

Uno dei primi compiti di Stevie fu quello di prendere un raschietto e rimuovere tutti gli strati di gomma cotta dal macchinario che mi ero procurato e che Jimmy ci aveva consegnato. Mentre disimballavamo i vari pezzi, Stevie lavorava minuziosamente attorno e sotto le macchine, liberandole da anni di gocciolamenti di gomma e sporcizia. Alla fine della giornata, sembrava un’enorme e grigiastra Wham-O Superball [le Wham-O Superball sono delle palline di gomma molto diffuse negli Stati Uniti]. Durante quei primi giorni, il suo pranzo non fu altro che una sequenza illimitata di tacos.

All’interno dello stabilimento realizzammo una mezza dozzina di spazi ben definiti per le sale di produzione, oltre a un ufficio e a un magazzino. Ci vollero mesi di duro lavoro per portare l’interno del magazzino in condizioni decenti. Anche mio suocero, Angus McClellan, venne in nostro soccorso costruendo un’impalcatura che ci consentisse di scalare le pareti di 25 metri e raggiungere il vasto soffitto a cupola. Stevie e io ci accodammo alla squadra che completò e tinteggiò tutto l’interno della fabbrica nel colore che avevamo scelto, il bianco Navajo. Stevie, che aveva dieci anni all’epoca, ricorda che noi due spostavamo l’impalcatura di un paio di metri e dipingevamo per un’ora, poi la spostavamo di un altro paio di metri e continuavamo a tinteggiare. Completammo l’interno dell’intera fabbrica, circa millesettecento metri quadrati, in una settimana. Anche Cheryl e Janie si resero utili, imbiancando le sezioni inferiori delle pareti.

Stevie si lamentava di dover dipingere quell’enorme fabbrica usando soltanto un pennello e un rullo. A me non piaceva farlo più di quanto piacesse a lui, ma che scelta avevamo? Avevamo bisogno di ogni centesimo dell’investimento di Serge per acquistare macchine, attrezzature e materiali per la produzione. Non avevamo soldi da parte per assumere lavoratori che si occupassero di compiti che potevamo svolgere in prima persona.

Se non lo sai, chiedi

Una sera, mentre raccontavo della nostra estenuante prova di tinteggiatura a mio fratello Robert, egli mi chiese: Ma perché non noleggi semplicemente uno spruzzatore di vernice?.

Rimasi basito. Un cosa?.

La manna di informazioni che ricevetti fu un’epifania. Mio fratello mi aveva appena insegnato una delle lezioni più importanti del business: ci sono molte cose che non sai, quindi chiedile. Pensa, non avevo la minima idea che esistessero degli spruzzatori di vernice! La mattina seguente ne rintracciai subito uno in un negozio di noleggio locale: era troppo tardi per fare le pareti interne, ma con quello spruzzatore riuscimmo a completare tutto l’esterno dell’edificio in un solo giorno.

Fino a quel momento, la Van Doren Rubber Company aveva lavorato molto duramente, così cominciai a pensare che sarebbe stata una buona idea cercarmi un partner. Il progetto era super stressante ed eravamo appena all’inizio! Tuttavia, non potevo certo aspettarmi che una manciata di ragazzi e adulti volontari, per quanto generosi e capaci, potessero gestire un’intera fabbrica, figuriamoci aiutarmi con la produzione una volta che fosse andata a regime. Ero stato un vero sciocco a pensare di poter fare tutto da solo.

Serge era l’investitore, io l’esperto della produzione, quindi aveva lasciato a me tutti gli aspetti pratici e logistici. Certo, discutevamo insieme della maggior parte dei problemi, ma le telefonate in Giappone erano costose, e soprattutto non volevo disturbarlo con ogni piccolo dettaglio.

Ci vuole un partner

Capii presto che avevo bisogno di qualcuno qui in California che mi aiutasse con gli aspetti pratici e le decisioni quotidiane e dividesse con me lo sforzo fisico necessario per fondare la Van Doren Rubber Company. Con una partecipazione personale a un’attività florida, chiunque avrebbe investito tutto il suo sapere.

Pensai a lungo alla persona migliore da scegliere come partner. Inizialmente, presi in considerazione mio fratello Robert: era un mago della meccanica e aveva anche lavorato da Randy’s per un po’, ma aveva ormai avviato una propria attività (produceva componenti di macchinari) e stava andando alla grande. Non avrebbe sicuramente voluto rinunciarvi. Bernice e Johnny non sapevano nulla di scarpe, quindi un loro coinvolgimento era fuori discussione.

Mio fratello Jimmy viveva in California con sua moglie. Si era trasferito qui con me per avviare Randy’s West e mi stava aiutando instancabilmente a creare la nuova fabbrica. Era anche la persona più intelligente che conoscevo, un ingegnere e un macchinista esperto; inoltre, sapeva come fare le scarpe da tennis.

Pensai anche al mio caro amico Gordon Lee. Era forte e capace e lo consideravo la persona più leale del pianeta: se gli avessi affidato un compito, avrebbe spostato il cielo e la terra per portarlo a termine. Lui e la sua famiglia vivevano già in California, e avere come partner una persona in grado di lavorare duramente sarebbe stato preziosissimo.

Sia Jimmy che Gordy avevano fatto parte della squadra originale che avevo portato qui da Randy’s East, ma chi sarebbe stato il migliore dei due? Ma dovevo davvero scegliere? Perché non assumere più di un partner? Pensai che i due insieme sarebbero stati un complemento perfetto ed equilibrato per la Van Doren Rubber Company.

Quote e vulcanizzatori

Chiamai Serge e suggerii di coinvolgere sia Jimmy che Gordy come partner. Ci pensò e anche lui concluse che sarebbe stata una buona idea. Stabilimmo che io avrei avuto una quota del 40% dell’azienda, anche perché stavo facendo la maggior parte del lavoro. Jimmy e Gordy avrebbero ottenuto ciascuno il 10% per i loro contributi, mentre Serge avrebbe conservato il 40% in qualità di unico investitore.

Ero emozionato: sentivo che l’attività poteva davvero prendere piede e vedevo l’edificio della fabbrica crescere lentamente davanti ai miei occhi. Assunsi alcuni ingegneri e altri professionisti per fare i lavori che dovevano essere completati da esperti. Angus e Danny erano tornati a casa a Boston diverso tempo prima, quindi fummo io, Gordy, Jimmy e i miei due figli a occuparci di tutto il resto.

Finalmente, tutto sembrava meraviglioso, dentro e fuori. Beh, forse non proprio meraviglioso, ma sicuramente pulito, organizzato e imbiancato. Ora tutto quello che ci serviva era l’attrezzatura per produrre le scarpe. Pur disponendo di mobili per ufficio e di alcune attrezzature usate, avevamo ancora bisogno di acquistare la maggior parte delle macchine per la fabbricazione di scarpe, compresa la più importante: il vulcanizzatore. Solo un vulcanizzatore di alta qualità assicura che le scarpe finite non siano scadenti, e io ero determinato a far sì che le nostre calzature fossero migliori di tutte le altre sul mercato.

Mi resi conto che, acquistando un pezzo alla volta, ci sarebbe voluta una vita per mettere insieme tutto quello di cui avevamo bisogno per la fabbrica. La soluzione migliore sarebbe stata quella di comprare un’intera fabbrica, che stava chiudendo per qualsiasi motivo e che voleva svendere tutta la baracca.

In quel periodo, praticamente ogni fabbrica di scarpe del paese, funzionante o in dismissione, si trovava sulla East Coast. Tornai così in Massachusetts per vedere cosa riuscivo a trovare. Avevo un contatto che si occupava di macchinari usati e lo chiamai tenendo le dita incrociate.

I miracoli a volte

Dave aveva sentito di un ragazzo nel Rhode Island che stava vendendo le attrezzature usate della fabbrica di scarpe di suo padre.

Quando mi disse cosa aveva da offrire, mi sembrò troppo bello per essere vero. Inseguii il mio destino sotto un temporale torrenziale: quel giorno rimarrà per sempre nella mia mente e nel mio cuore. I macchinari si rivelarono esattamente quelli di cui avevamo bisogno. E non esagero dicendo esattamente. Forme, matrici, modelli, macchine per cucire, rulli, tutto quanto… e il vulcanizzatore, l’ambito vulcanizzatore era il più grande tra quelli disponibili sul mercato. Era molto più di quanto mi sarei potuto aspettare di trovare in un unico posto, ed era tutto il meglio che si poteva comprare, tra l’altro in ottime condizioni.

A quanto pare, il padre di questo tizio aveva gestito un impianto di produzione di scarpe e si aspettava che il figlio ne prendesse le redini dopo il suo pensionamento. Il figlio, però, non aveva alcun interesse per il mondo della produzione e la fabbrica venne chiusa. Ciò nonostante, il padre aveva continuato a sperare e aveva messo tutte le attrezzature di produzione in un deposito, per ogni evenienza. Volevo tutto. Disperatamente. Tirai fuori il mio nuovo libretto degli assegni e una penna.

Posso farti subito un assegno per sessantacinquemila dollari, dissi con un grande sorriso. Sapevo che era un’offerta bassa, ma era praticamente tutto quello che ci era rimasto. Aggrottò la fronte, poi scosse la testa. Ho già un’offerta per trecentocinquantamila dollari. Devo solo portare tutto in Sud America.

Il mio cuore si fermò. Quei 350.000 dollari erano molto più di quanto avessimo. Non avrei nemmeno potuto contrattare se eravamo così lontani da un accordo!

Solo due volte nella vita arrivai a chiedere un intervento divino: questa fu una di quelle. Mia madre era cattolica e io ero cresciuto andando in chiesa, ma a quel punto della mia vita non mi interessavo molto alla religione. Non ero mai riuscito a comprenderne certi aspetti, come la confessione: potevi svaligiare una banca, ma se il giorno dopo ti confessavi, era come se non fosse successo nulla. Non riuscivo a concepirlo.

Eppure, mentre stavo lì e i secondi passavano, pregai San Giuda di venire in mio aiuto. Volevo davvero quell’attrezzatura. Avevo bisogno di quell’attrezzatura.

Appena finii di pregare, il venditore si rivolse improvvisamente a me. Va bene, dai, disse con una smorfia. È tutto tuo.

24/365

Rimasi così stupito che a malapena ricordo di aver afferrato la sua mano e di averla stretta forte prima che potesse cambiare idea e tirarla indietro. Mi ritrovai fuori sotto la pioggia battente, in piedi come uno zombie, chiedendomi come diavolo fosse successo. L’intera conversazione era durata forse quindici secondi.

Ero assolutamente in estasi. Non posso esprimere a parole quanto fossi felice in quel momento. Come avevo potuto essere così incredibilmente, sorprendentemente fortunato? Cose del genere non accadono mai! Fu un vero miracolo.

Non chiedetemi cosa gli abbia fatto cambiare idea: forse aveva pensato che chi troppo vuole nulla stringe, forse era stato l’intervento di San Giuda, o magari non aveva la minima voglia di andare fino in Sud America con le attrezzature.

In ogni caso, nella mia mente si impresse decisamente come un miracolo.

Il processo di avviamento richiese un anno intero, dal momento in cui iniziammo a ristrutturare l’edificio fino a quello in cui rifornimmo i nostri scaffali con le prime scorte di scarpe. Anche se non c’erano soldi per i nostri stipendi, per tutto quell’anno lavorammo ogni giorno, sette giorni alla settimana, per tutte le ore che riuscimmo a rimanere svegli. Arrivammo al punto in cui le mogli di Jimmy e Gordy si lamentarono di non vederli più: il loro disagio era comprensibile.

Così, dissi ai ragazzi: Beh, qualsiasi cosa abbiate bisogno di fare, andate e fatelo. Io però devo continuare a lavorare.

Fare le scarpe nel modo giusto

Non sapevo che avrei ripetuto quelle stesse parole moltissime volte negli anni successivi. C’è un’altra frase che mi piaceva ripetere spesso: noi faremo le scarpe nel modo giusto. Ecco cosa significava davvero questa affermazione.

La prima fase di realizzazione di una scarpa si svolgeva nella sala di cucitura: i rotoli di tela venivano tagliati nelle varie parti della tomaia, poi veniva inserita una punta di gomma all’interno della punta di tela; successivamente le parti superiori in tessuto venivano cucite insieme, si posizionavano i collari, si inseriva la schiuma e infine si ruotavano i collari. Poi venivano attaccati i contrafforti dei talloni interni ed esterni e veniva cucita la mascherina.

Il lavoro procedeva quindi verso la sala di lavorazione, dove da sottili strisce di gomma venivano tagliati lo sperone, il nastro zigrinato, i bumper e le linguette del tallone e si stampavano le robuste solette inferiori. Mio fratello più giovane, Jimmy, realizzò ogni stampo a mano, lavorando tutto il giorno sul tornio di casa.

Le suole a nido d’ape, invece, venivano dapprima modellate su fogli di gomma spessi, poi termopolimerizzate e compresse, quindi stampate mentre erano ancora calde utilizzando uno stampo a rombi. È così che abbiamo creato la nostra iconica suola a nido d’ape.

Per le suole, utilizzavamo gomma para pura senza riempitivi. L’aggiunta del riempitivo era in realtà la prassi tra tutti gli altri produttori di sneaker, ma quel componente indeboliva la struttura, la rendeva meno flessibile e comportava un’usura molto più rapida della suola.

Completato il lavoro nella sala di lavorazione, il trasportatore spostava le scarpe nella sala di adattamento, dove venivano aggiunti la spugna, gli archi e le solette interne.

Tutto procedeva quindi alla sala di preparazione o assemblaggio. Qui, utilizzando le apposite forme, le tomaie e i dettagli venivano uniti alle suole a nido d’ape utilizzando cemento a base di lattice. Tre strisce di gomma chiamate speroni venivano poi applicate con le strisce zigrinate sul giunto e la gomma in eccesso veniva rifilata. A seguire, si sigillavano la punta e il tallone e le scarpe venivano immerse nel lattice e poi fatte asciugare.

Il primo logo

Infine, dopo aver applicato il bumper sull’alluce, posizionavamo il logo sul tallone. All’inizio l’etichetta non riportava la scritta Van Doren, ma consisteva in un disegno stilizzato di una V con delle ali, che chiamavamo Flying V. Quel primo anno fu l’unico in cui applicammo l’etichetta Flying V su tutte le nostre scarpe. Più tardi modificammo alcuni modelli applicando sul tallone un’etichetta con la scritta Van; lo stesso accadde con la scatola. In seguito, le etichette del tallone e le scatole furono nuovamente modificate con la scritta Van Doren. Eseguimmo qualche prova per capire se la modifica avrebbe fatto qualche differenza, ma non ne fece alcuna.

Completato il lavoro nella sala di preparazione, le scarpe venivano caricate nel vulcanizzatore e cotte a 275 gradi con una pressione dell’aria di 1,38 bar, in condizioni di umidità ideali. Dopo il raffreddamento, le trasferivamo nella sala di imballaggio, dove venivano pulite e si inserivano i lacci; infine, le calzature venivano avvolte nella carta velina, confezionate e imballate per la spedizione.

Il processo di vulcanizzazione, purtroppo, rendeva molto appiccicose le suole in gomma finite, al punto che aderivano alla carta velina in cui venivano avvolte prima di essere inscatolate. Quando avviammo la produzione vera e propria, questo problema mi fece diventare matto. Ero convinto che fossero i lavoratori, durante il processo di assemblaggio, a commettere errori con il cemento di lattice. Avevo lavorato come formatore e sapevo bene che il cemento non doveva toccare la suola: certamente era questo il motivo per cui la carta continuava a rimanere attaccata.

Dopo essermi faticosamente occupato del processo per un giorno, mi resi conto che mi sbagliavo: le suole in gomma erano naturalmente appiccicose. Tuttavia, questo problema si rivelò un enorme punto di forza per gli skater, quindi alla fine imparai ad accettarlo. Ma sarebbe successo dopo: all’epoca, tutto quello che pensavo era dannazione, forse dovremmo avvolgerle in carta cerata.

I primi problemi, i primi modelli

Il famoso motivo a nido d’ape, come molte delle mie ottime idee, fu il risultato diretto dell’improvvisazione che applicavo dopo che qualcosa era andato storto. Le prime scarpe che producemmo sembravano buone, davvero buone, ma presto scoprimmo che c’era un difetto nelle suole che avevo progettato: infatti, si rompevano in corrispondenza del cuscinetto del piede già dopo un breve periodo di utilizzo. Finimmo per aggiungere nove linee verticali al motivo sopra la zona del cuscinetto per creare uno schema più denso in quella zona…

e voilà! Nacque così la nostra caratteristica distintiva. La nostra fonte di guadagno era il modello n. 44, una classica scarpa bassa con la suola di gomma che in seguito divenne giustamente nota come Authentic. Le scarpe basse erano le calzature informali popolari in tutto il paese, ma la nostra fu la prima con una suola extra spessa a nido d’ape. La nostra versione della calzatura generica chiamata CVO (dall’inglese Circular Vamp Oxford) era disponibile sia in tela che in pelle scamosciata (visto che qualsiasi materiale vulcanizzato deve essere resistente al calore, la tomaia è in genere realizzata con pelle scamosciata, pelle e cotone con dettagli metallici). La scarpa aveva cinque occhielli per i lacci.

Il resto della nostra selezione iniziale fu altrettanto modesto e senza pretese. Fu una scelta deliberata: niente scarpe eleganti o specializzate, solo una manciata di modelli semplici. Proponevamo anche il modello n. 19, una scarpa da donna con lacci a quattro occhielli, il n. 16, una calzatura CVO a due occhielli sempre da donna, e il n. 20, una scarpa senza lacci. Per i bambini era disponibile il modello n. 15. Il n. 46 era una scarpa da barca in pelle scamosciata con suola esterna a righe blu, per una migliore aderenza sui ponti delle barche, mentre il n. 45 era una scarpa da barca in tela, anch’essa con la suola a righe.

Più avanti avremmo offerto anche una più ampia selezione di colori, ascoltando le richieste e introducendo le nuove tonalità quando la domanda era sufficientemente alta. Per cominciare, però, decidemmo di proporre i nostri quattro colori standard per la tela (azzurro, blu scuro, verde loden e bianco) e li offrimmo nelle misure per uomini, donne, bambini e bambine. Le scarpe scamosciate erano disponibili in bianco, blu, oro e rosso: non avevano alcun tipo di fodera in tessuto, quindi se le prendevi blu e le bagnavi, anche i tuoi calzini o i tuoi piedi diventavano blu (un bel bonus!).

Lo slogan sulla nostra prima scatola di scarpe era Canvas Shoes for the Whole Family [Scarpe di tela per tutta la famiglia] mentre il marchio era House of Vans. Fissammo per tutte le nostre scarpe un prezzo compreso tra 2,29 e 4,49 dollari.

L’invidia è una brutta cosa

Bob Cohen, il mio ex capo di Randy’s, fece di tutto per impedire alla Van Doren Rubber Company di avere successo. Per prima cosa, avvertì i suoi dipendenti che sarebbero stati licenziati se avessero avuto qualcosa a che fare con noi; poi contattò tutti i suoi fornitori di materiale e assicurò loro che avrebbe messo fine alle trattative se avessero venduto i loro prodotti anche alla nostra azienda.

Quel ragazzo che ci aveva venduto la maggior parte delle nostre attrezzature di produzione chiamò per riferirci che Bob lo aveva contattato e lo aveva esortato a ritirarsi dall’accordo. Aveva rifiutato, grazie al cielo: tutto considerato, era l’unica cosa che importava davvero.

Il suo aiuto fu fondamentale per consentirci di andare avanti.

Nel frattempo, altre aziende della nostra catena di approvvigionamento cominciarono a rifiutarsi di lavorare con noi. Il primo fornitore ad abbandonarci fu quel tizio che avevamo messo sotto contratto per realizzare le scatole da scarpe: rinnegò l’accordo che avevamo stipulato e alla fine si rifiutò di collaborare. Colsi l’occasione per inventare un nuovo tipo di scatola.

Per essere onesto, avevo sempre odiato le scatole standard con i loro coperchi staccabili. Non so quanto tempo ho perso nella mia vita a setacciare scatole e coperchi nei magazzini: quel continuo rimestare nel cartone – un vero fastidio, per non dire altro – mi spinse a progettare qualcosa di nuovo.

La mia soluzione prevedeva l’uso di un singolo pezzo di cartone piatto, che poteva essere piegato in modo che il coperchio fosse fissato alla scatola. Forse provavo rancore contro il Giappone per Pearl Harbor, ma gli origami che avevo visto quando mi ero recato per la prima volta dal mio sostenitore Serge erano stati un’incredibile fonte di ispirazione. L’improvvisazione finì per giocare a nostro favore. Purtroppo, Bob cominciò a chiamare uno a uno tutti i nostri fornitori della West Coast, e anche quelli della East Coast, per contrastare i nostri sforzi (un po’ come gli inglesi durante il Boston Tea Party, ma coprendo entrambe le coste). Non c’era un solo materiale necessario per le sneaker che non provò a impedirci di acquistare.

Per dirla tutta, fece altresì in modo che io venissi a saperlo. Molti fornitori provavano empatia per noi, ma nessuno ebbe il coraggio di oltrepassare il limite per aiutarci. Ancora oggi, quando si parla di catene di approvvigionamento, il mio consiglio è quello di controllare tutto il possibile e di mantenere un certo grado di agilità. Non sentirti mai troppo a tuo agio e non riposare sugli allori.

La scelta del personale

La mia intenzione rimaneva quella di produrre scarpe di qualità. Decisi fin dall’inizio che non avrei mai venduto scarpe a un discount: non avrei mai prodotto scarpe solo per svenderle. Ogni paio di scarpe da me realizzato doveva essere venduto nel mio negozio. Decisi altresì che, quando una persona entrava nel mio negozio, la sua misura doveva essere sempre disponibile in magazzino: l’unico modo per farlo era mettere due misure di ogni modello di scarpa nel negozio e consegnarle il giorno stesso. Nessun altro consegnava ogni giorno: io lo facevo.

Il controllo della catena di approvvigionamento fece la differenza sia in termini di qualità sia in termini di servizio.

Alla fine, arrivammo al punto di dover assumere e formare nuovi dipendenti che avrebbero realizzato le scarpe e gestito il magazzino, insieme a qualche supervisore e a una manciata di contabili e custodi.

Non avevo un’istruzione formale, ma da Randy’s avevo imparato a distinguere le persone che sapevano cosa fare da quelle che non avevano la minima idea di dove mettere le mani. Su dieci persone che potresti incontrare, otto di loro non sapranno nemmeno di cosa stai parlando. Soprattutto, avevo bisogno di supervisori disposti a sporcarsi le mani. Solo alcune persone sono propense a farlo, ma la maggior parte rifugge all’idea. Imparai a scegliere i miei dipendenti con attenzione. Non ho mai escluso le persone in base al genere, alla razza o ad altri pregiudizi comuni; non ci sono mai stati barriere invisibili o soffitti di vetro alla Van Doren Rubber Company.

Quando iniziarono i colloqui, la prima cosa che facevo dopo che qualcuno mi aveva consegnato il suo curriculum vitae era gettarlo nella spazzatura. I candidati rimanevano ovviamente inorriditi e apparivano nervosi, ma quando si accorgevano che continuavo a fare domande e a farli parlare di se stessi, si rilassavano. In quale altro modo avrei potuto scoprire chi fossero veramente?

La mia strategia funzionò in modo eccellente: riuscivo a dare un’occhiata alla persona reale e ad assegnare i candidati al lavoro giusto, che non era necessariamente quello per cui avevano fatto domanda. La capacità di valutare le persone in questo modo mi permetteva di assumere le persone più adatte, quelle che avevano sia le competenze sia l’atteggiamento giusto per andare d’accordo gli altri.

Mi assicurai di procedere in questo modo con ogni singola persona che avremmo assunto: credo che, sia nel breve sia nel lungo periodo, l’azienda abbia avuto successo proprio grazie alle persone che hanno lavorato con noi.

Non che io fossi un capo facile! Sono il primo ad ammettere di essere esigente, impegnativo e, spesso, frastornante. La colpa è dei miei genitori, che raramente si preoccupavano di persuaderti con calma: quando volevano far sentire la loro opinione, alzavano semplicemente la voce. Non sono mai stato maleducato o scortese, solo rumoroso. Molto, molto rumoroso.

L’ultimo piccolo particolare

Essendo un amante dei sistemi, ho sempre apprezzato l’efficienza e ho imparato a definire le aspettative. I nostri dipendenti sapevano sempre cosa volevo che facessero e come doveva essere fatto. Ero davvero pedante con quei sistemi: ogni cosa aveva il proprio posto e ogni procedura aveva la propria routine (e il cielo aiuti chiunque si allontani da essa).

Prendiamo, per esempio, la spazzatura. Usavamo un barile che doveva trovarsi sempre in un determinato posto affinché chi ne avesse bisogno potesse arrivarci facilmente. Veniva spostato solo di pochi metri in un senso o nell’altro, ma quei pochi metri facevano la differenza quando qualcuno aveva bisogno di arrivarci velocemente.

Un giorno dipinsi un cerchio giallo brillante sul pavimento attorno alla base del barile e dissi a tutti che il barile doveva rimanere dentro quel cerchio. Quando il giorno dopo vidi che il barile era fuori dal cerchio, lo buttai a calci lungo il corridoio, lasciandolo steso su un lato e disinteressandomi del contenuto che si spargeva. Il barile non fu mai più lasciato fuori dal cerchio. Un punto per me.

Infine, arrivò il giorno in cui tutte le attrezzature di produzione erano state installate, tutti i dipendenti necessari erano stati assunti e formati e tutti i test erano stati eseguiti. Portammo avanti la produzione senza intoppi e, quando il nostro primo paio di sneaker uscì dal trasportatore, applaudimmo di gioia. Ce l’avevamo fatta! La nostra fabbrica era attiva e funzionante, e produceva scarpe.

Ora non ci restava che venderle.

Immagine di apertura originale di Paul Gaudriault su Unsplash.

L'autore

  • Paul Van Doren
    Paul Van Doren è stato il fondatore di Vans. Ha guidato l'azienda dalla sua nascita nel 1966 fino al 1988, da allora ne è stato un instancabile ambasciatore fino alla sua scomparsa nel maggio del 2021.

    Foto: © Alex Baret.

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