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La lettera di De Bortoli e quel dibattito in ritardo

06 Ottobre 2010

La lettera di De Bortoli e quel dibattito in ritardo

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Il direttore del Corriere incita i suoi redattori a guardare in modo nuovo a internet e la redazione sciopera due giorni. Ne nasce un piccolo caso nazionale, che racconta molto del giornale, del giornalismo e della società (italiani)

Dovremmo chiederci perché ha avuto un risalto così ampio in Rete la lettera aperta alla redazione del Corriere della Sera da parte del direttore Ferruccio De Bortoli e molto meno ne hanno avuto le ragioni dello sciopero di due giorni indetto dal Comitato di redazione. Dovrebbero chiederselo anche i giornalisti italiani e il Comitato di redazione del Corriere. È vero, qualcuno dirà, che “la rete non è la vita reale” ed è troppo umorale e istintiva per entrare nel merito di un dibattito sindacale di ampio respiro. È anche vero che il richiamo alle ragioni della mutazione della carta stampata che corre sul web fatta dal direttore ha trovato in rete un terreno fertile. Ha cercato in modo facile dei complici.

Ritengo però che alcune argomentazioni di più ampio respiro che De Bortoli ha trattato mettano il dito sulla piaga di un dibattito che in questo Paese non sì è stati capaci – o non si è avuto il coraggio – di cominciare con la giusta tempestività e visione. Un dibattito che la “irrealtà” della Rete ha cominciato da tempo, con i suoi modi e le sue forme, e che la “cultura viva” delle redazioni dei giornali  – vogliamo dire: dei media? – ha ignorato troppo a lungo, almeno nelle sue componenti generaliste e lobbistiche.

Inaccettabile

«Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione», scrive il direttore. E l’elenco dei suoi «non è più accettabile» mette a fuoco alcune delle sfide che ci attendono nei modi di fare informazione:

Non è più accettabile che perduri la norma che prevede il consenso dell’interessato a ogni spostamento, a parità di mansione. Prima vengono le esigenze del giornale poi le pur legittime aspirazioni dei giornalisti. Non è più accettabile che i colleghi delle testate locali non possano scrivere per l’edizione nazionale, mentre lo possono tranquillamente fare professionisti con contratti magari per giornali concorrenti. Non è più accettabile l’atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l’affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l’edizione Ipad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell’edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie. Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi. Non è più accettabile una visione così gretta e corporativa di una professione che ogni giorno fa le pulci, e giustamente, alle inefficienze e alle inadeguatezze di tutto il resto del mondo dell’impresa e del lavoro.

Troviamo quindi intrecciate problematiche interne al quotidiano con problematiche di sistema, spunti conoscitivi interessanti soprattutto perché vengono da dentro il mondo spesso paludato e tacciato di corporativismo del giornalismo. Non voglio però entrare qui nel merito della vicenda sindacale, le cui tappe sono ben raccontate da Il Post, né dei piani di sviluppo del Corriere, perché sicuramente questa missiva, vale la pena ricordarlo, ha la natura del cavallo di Troia comunicativo che cela al suo interno questioni tutte interne al mondo del giornale, per quanto di rilevante interesse pubblico (qualcuno parla di modello Marchionne al Corriere, per esempio). E trovo più che ragionevole chiedersi, come fa Luca Alagna, se non sia una visione miope imporre cambiamenti che vengono in modo arbitrario e a senso unico dall’editore senza che sia «frutto di un mutamento culturale e professionale».

Prospettiva

Ma è proprio la prospettiva culturale, che si staglia visibile nel richiamo alla natura della trasformazione del giornalismo e del modo di fare informazione in questa era di transizione verso la transmedialità, che risulta efficace. Il dibattito culturale che può nascere, vale la pena ribadirlo, è già in ritardo. E deve coinvolgere più attori di sistema e non solo il mondo strettamente giornalistico. Per questo per me, come ho già scritto e dibattuto – in Rete, dove se no? – quella di De Bortoli può rappresentare una stilettata. In questo senso si tratta di una lettera importante. Senza fare del direttore il paladino del digitale, perché alcune sue posizioni passate sono note. L’efficacia oggi è tutta comunicativa, perché qui si chiama in causa e si parla a tutta la società e a una parte, forse, più consapevole e attenta alla mutazione in atto. Quella che ha a che fare non solo con esaltati tecnofili ebookaddicted ma con la trasformazione delle forme del produrre, distribuire e consumare informazioni che coinvolge le nostre vite connesse. E ha a che fare anche con le dinamiche di formazione di un mestiere del domani che oggi chiamiamo “giornalismo”, pensandolo nei modi di produzione novecenteschi.

Come chiarisce lucidamente Vittorio Zambardino, che di mestiere fa il giornalista ed è attento alle mutazioni della professione, «Le domande valgono pari pari per tutta la categoria giornalistica. E valgono anche per chi sta fuori – in quel mondo di tumulto che sta fra web programming e blogger, opinionisti e giornalisti che ci provano a inserirsi nel mondo dei media. È importante per capire quale strada si dovrà seguire per fare del giornalismo il “servizio sociale” libero di cui ha bisogno la società del ventunesimo secolo, per sapere in quale lingua scrivere i pezzi di oggi e domani». Per questo, forse, non ha senso “giocare in difesa”, come scrive Luca De Biase. Aggiunge Carlo Felice Dalla Pasqua, anche lui giornalista e anche lui nel suo blog, «Fino ad ora c’era soltanto un dibattito teorico (parlo dell’Italia), ora tutte le redazioni – online e non, se la distinzione ha ancora un senso – sono chiamate a dimostrare nei fatti che hanno capito la direzione che in altri Paesi il mondo dell’informazione ha già preso da tempo».

A caldo

Se osserviamo i molti commenti su Twitter troviamo una reazione a caldo, se volete, ma significativa di come le parole del direttore tocchino il cuore di chi sta vivendo online la mutazione sulle proprie spalle e di come la risposta del Comitato di redazione sia considerata quantomeno inefficace, per non dire incapace di rispondere puntualmente. Basta leggere i tweet. Cose come:

@pandemia: De Bortoli invita a spendersi su internet e la redazione? 2gg di sciopero! roba da matti!

@Cecce67 La Lettera del direttore de Bortoli ai colleghi del Corriere… Quando un’era finisce e qualcuno ha il coraggio di dirlo…

@giuseppefragola Segnalo la lettera di De Bortoli ai colleghi; triste espressione di una elite e di un paese fermo, retrogrado, cooperativistico, VECCHIO!!

@lucco78 Liked “Io sto con i De Bortoli”

Oppure la sintesi circolata in alcuni re-tweet,  che assumono la forza della diffusione condivisa: «Ferruccio De Bortoli ha ragione. Il comitato di redazione no. Punto e basta». Suscita interesse in Rete anche la prospettiva di apertura ai «talenti giovani e multimediali» – sì, lo so, dire “multimediali” è molto anni ’90 e paga lo scotto della scarsa cultura digitale del direttore – fino «all’assunzione di dieci giovani all’anno, attraverso la Rete e la selezione dagli stage universitari», che  presenta sicuramente una prospettiva nuova a chi, giovane e in formazione, abita la rete per informazione e intrattenimento e gioca su questo suo abitare anche un progetto possibile di vita lavorativa.

Strategie

Illusioni pseudo-illuministe? Una semplice strategia comunicativa vocata a creare consenso nella società civile? La pensa così, ad esempio, un giornalista del Corriere che vuole restare anonimo e che spiega le ragioni “occulte” che starebbero dietro i fatti e conclude:

Per mestiere, siamo abituati a leggere tra le righe. Ed è quello che abbiamo cercato di fare anche questa volta. Quello che abbiamo creduto di intravvedere, per quanto nebuloso, non è un buon segnale per la stampa italiana e per il Paese in generale. Il fatto che all’esterno sia spesso passato solo il concetto della “difesa corporativistica di categoria” mi conferma, purtroppo, in questa lettura.

Sarà anche così ma molti di quelli che prima di leggere “tra” le righe hanno pensato di leggere i contenuti espressi “nelle” righe hanno visto un segnale di senso contrario. Che il dibattito incominci.

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