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La filosofia del Tag

12 Gennaio 2009

La filosofia del Tag

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Usare i tag sottintende un lavoro filosofico complesso e spesso sottovalutato: si può contribuire al caos o alla creazione di un nuovo ordine universale nel quale le relazioni possono essere le più impensabili

Posso immaginare che quasi nessuno si sia mai recato da un farmacista per ottenere un rimedio contro la puntura di una Aedes Aegypti o di una più fastidiosa Aedes Albopictus. E neppure al farmacista può aiutare sapere che i due soggetti facciano parte della famiglia dei Culicidacei o del sott’ordine dei Namatoceri. Molto più prosaicamente è meglio preferire il cosiddetto nome volgare (zanzara e zanzara tigre) per ottenere una comunicazione, magari meno precisa, ma certamente più efficace. Sembra che negli esseri umani l’impulso a nominare le cose secondo proprie preferenze continui ben oltre la prima individuazione, dotando i nomi di una certa fluidità e garantendo un habitat fertile per il mondo magico dei sinonimi. Anche quando un nome serve a identificare univocamente una persona.

Io sono cresciuto in un paese nel quale nome e cognome delle persone corrispondeva più o meno al nome scientifico per le zanzare: pochi quello che lo conoscevano, ancora meno quelli che lo usavano. Si racconta che all’intitolazione di una piazza a Giuseppe Alessandria, notabile locale, gli abitanti mugugnarono tanto da costringere il sindaco a ritoccare l’intitolazione in una maniera più familiare: ora la piazza si chiama Piazza Barba Gep -Zio Beppe, soprannome con il quale era conosciuto. Ci è più naturale chiamare le cose con un nome privato, quasi che riuscendo a trasformare il nome imposto da genitori lontani ci si impossessi della persona e si riesca a farla rientrare nel nostro personale classificatore.

Insomma quando creiamo una relazione con una persona o una cosa è come se ricostruissimo un paesaggio nel quale i nomi, che sono i punti di riferimento, debbano coerenza più con la nostra idea del mondo che ad una visione oggettiva della realtà. Finora questa opportunità di riorganizzare l’universo è stata limitata alla sfera personale in quanto le nostre generazioni sono arrivate in ritardo rispetto alla classificazione del mondo che ci circonda (certo si può sempre sperare nell’amico astronomo o botanico dotato di poca fantasia che un dì ci chiami per battezzare un meteorite o un protozoo).  Per il resto ci hanno pensato fior di menti eccelse a fare ordine, a noi non resta che studiare tali classificazioni e in qualche modo rispettarle.

Eppure l’idea di creare nomi univoci e oggettivi a cose e persone è relativamente nuova nella storia dell’umanità e il suo punto più alto lo si può individuare nella imposizione dei cognomi (in Italia dalla seconda metà del ‘500) e nella classificazione tassonomica del mondo naturale come quella iniziata dallo scienziato svedese Linneo. Linneo secondo il principio matematico per cui per due punti passa una sola retta, non solo ideò il sistema di classificazione ma determinò anche il sistema binominale per cui per ogni animale si provvedeva di una coppia di nomi che ne indicassero la posizione precisa nel mondo animale. Ma prima di questa ossessione per la determinazione di relazioni univoche tra nomi e cose il panorama era decisamente più “creativo”. Racconta Jorge Luis Borges che un’antica enciclopedia cinese classificava gli animali in:

1. Animali di proprietà dell’imperatore, 2. Imbalsamati, 3. Addomesticati, 4. Maialini da latte, 5. Sirene, 6. Favolosi, 7. Cani in libertà, 8. Inclusi nella presente classificazione, 9. Che si agitano follemente, 10. Innumerevoli, 11. Disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, 12. Et caetera, 13. Animali che fanno l’amore, 14. Animali che da lontano sembrano mosche.

È una lunghissima epoca in cui, come racconta lo storico dell’arte Jurgis Batrusaitis, il fatto che un animale fosse reale o immaginario era considerato un dettaglio del tutto trascurabile. E così il bestiario, corrispondente odierno delle enciclopedie degli animali, affianca cavalli e unicorni, salamandre (dalle virtù magiche) e fenici, organizzati in un ordine che poteva fare comodo a questo o quel potere. Certo dal punto di vista di post-cartesiani e soprattutto post-linneiani questo metodo di classificazione è piuttosto fantasioso, non è identificabile come un metodo e non indica un ordine comprensibile. Un atteggiamento non lontano da quello che assumiamo nel descrivere materie che non conosciamo: un misto di realtà, di termini usati in maniera più o meno inappropriata (un medico della mutua minacciò di cacciarmi dallo studio se avessi usato ancora una volta il termine “asma” per definire le mie difficoltà respiratorie), leggende e credenze popolari (è opportuno fare la doccia dopo pranzo? tagliarsi i capelli con la luna calante?).

Insomma l’importante è che sia per noi credibile, il fondamento scientifico può anche essere un elemento secondario. Capita ora che nella nostra funzione di tuttologi e onnivori della conoscenza ci troviamo per le mani la responsabilità di comunicare e organizzare la nostra cosmogonia grazie alla rete Internet. Blog, pagine web e tutto il rutilante mondo del web 2.0 è imperniato nella condivisione della conoscenza attraverso l’uso delle parole come punti di riferimento. Lo strumento principe che ci è dato per determinare le relazioni e quindi le descrizioni è il tag, il più immediato, medievale, fantasioso, irresponsabile metodo di catalogare le cose del mondo. Niente più universi ordinati alfabeticamente, per esempio, in cui A-Apra è una galassia separata (anche fisicamente) da Apri-Benj o Tras-Z, un ordine supremo e incrollabile, talmente perfetto che sebbene Linneo venga piazzato tra lo scrittore danese contemporaneo Linnermann e la pianta del Lino la fiducia in tale ordine non viene scalfita neppure per un momento.

E neanche più ordini reciprocamente contenitori come regno > philum > classe > ordine > famiglia > genere > specie, ma una classificazione che esplode in superficie richiamando collegamenti logici, impensabili, vendicativi, razionali, personalissimi e strutturalmente anarchici. Basta fare un salto su Flickr, il duepuntozero della fotografia e provocare il sistema cercando un termine generico, ad esempio love, per subire la vertigine della follia catalogatoria dei propri simili: in risposta si ottiene tutto ciò che le sinapsi umane possono collegare alla parola love (e a anche qualche cosa di più). Gente che si bacia, gatti che si baciano, campi di girasole, tastiere di computer, alberi, tramonti, anelli, teschi, piedi, spillette, cioccolato, nuvole, candele, rose, nani da giardino, carte da gioco, animali, cuori e pastelli colorati.

Il fatto è che, senza voler esagerare, quando di applica un tag a una ricetta della spigola al cartoccio o a un articolo sulla Sindrome di Apserger è necessario che l’utente, preparato o no, faccia il suo piccolo sforzo ontologico di descrizione dell’universo, dell’ordine al quale obbedisce e soprattutto lo sforzo di trovare il termine (o i termini) che facciano comprendere ai lettori questo ordine. Una operazione alla quale con alterne fortune ci si sono impegnati fior di pensatori da Parmenide a Platone, da Cartesio a Kant, giù giù fino a Wittgenstein e Charlie Brown. Un’operazione che nel passato avrebbe richiesto rispetto, preparazione e deferenza verso i maestri, ma che in queste nostre meravigliosa epoca di allegra irresponsabilità ci permette di ridisegnare le rotte delle orbite celesti ogni volta che si posta una foto su Flickr o si scrive un post sulla nostra personalissima cronaca della fettina di mondo nella quale viviamo. Taggando il tutto con la parola opinioni.

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