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La cassettiera di Second Life

16 Novembre 2007

La cassettiera di Second Life

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Second Life è davvero solo un ambiente piatto popolato di bambolotti che si muovono in maniera goffa? È solo una sovrastruttura complicata e inutile del web? Che cosa c'è di interessante? E quali possono essere i temi di un'analisi problematica che tenga conto di una evoluzione futura?

Per un paio d’anni, dal punto di vista di un osservatore distratto e occasionale, Second Life è stata una specie di inquietante mitologia del vaso di Pandora o, a seconda dei punti di vista, del Klondike di Zio Paperone. I media tradizionali la raccontavano, come è giusto che sia, attraverso ciò che fa notizia (i grandi numeri, sebbene teorici, gli arricchimenti miracolosi, la prostituzione). Questi input, frugali e clamorosi allo stesso tempo, sono stati poi sottoposti al fisologico gioco del telefono della conoscenza sociale. Una sera in un pub ho ascoltato un frammento di una conversazione in cui un ragazzo (che so essere competente di cose digitali) diceva ad una comune amica: «Lo sai che su Second Life se voglio posso venire a incendiarti la casa? Hanno persino violentato una turista tedesca».

È un processo di narrazione e percezione dell’innovazione abbastanza codificato (Dario De Judicibus spiega efficacemente il ciclo di hype), cui alcuni della mia generazione digitale possono affiancare anche diverse esperienze personali. Nella seconda metà degli anni Novanta, quando raccontavamo a qualcuno del Web e lo convincevamo a dare un’occhiata, la risposta media che ottenevamo era “Sì, va bene, ma non mi appassiona” (declinato attraverso le varie cosmogonie individuali: “Sì, va bene, ma preferisco la vita reale”; “Sì, va bene, ma stai parlando a un computer”; “Sì, va bene, ma tu non sei del tutto normale”. E noi pensavamo: per capire queste cose bisogna averne esperienza, starci un po’ dentro, farci qualcosa di utile. E sapevamo che toccava aspettare che i tempi fossero maturi.

Dopo lo scoppio della bolla del 2001 (vale una rilettura del pezzo di Dario cambiando il soggetto) una buona parte degli esperti di Web si rifiutò (per pura abitudine cognitiva, per mancanza di riconoscimento, per tutti gli argomenti di McLuhan sull’avvicendamento dei media) di capire lo spostamento sull’asse umano e distribuito delle attività di rete. Il blogging e il social networking imponevano, per essere capiti, la necessità di cambiare completamente schemi mentali nel rapporto con l’ambiente mediale. Molti, rifiutando questo passaggio, hanno finito per essere considerati dinosauri. Altri ci sono arrivati più lentamente. E molti di noi hanno rivissuto la fase di passaggio: spiegazioni, racconti e risposte che ci facevano cadere le braccia. C’è voluto del tempo perchè blog e social media superassero la fase di rigetto e diventassero significanti in grado di far riferimento a un minimo di senso comune condiviso. Nella storia, quella italiana, c’è il rifiuto degli editori, degli scrittori, dei giornalisti. Che progressivamente oggi cercano e trovano un loro ambiente utile all’interno della rete.

Nel giugno del 2004 (sembra passata una vita), organizzando il primo convegno internazionale sulla Rete come spazio pubblico, eravamo in piena complicazione divulgativa e avevamo un mantra, scherzoso ma profondamente serio: non far tenere relazioni a nessuno che non avesse almeno un centinaio di ore di esperienza attiva nel blogging. Se è vero che per usare un blog non è necessario capire in fondo la grammatica del web e i processi che lo governano (come per un automobilista non è necessario capire la logica dell’infrastruttra viaria), per poter spiegare certe applicazioni sociali della tecnologia serve averne fatto una buona esperienza.

Successivamente, finita la baldoria per il “tutti possono scrivere”, è iniziata quella recente, nelle cronache di questi mesi, per il tutti “possono fare e pubblicare dei video”. C’è una famosa slide di Derrick De Kerchove che mostra il numero di generazioni per singolo medium. A memoria, senza fidarmi troppo ma per dare un’idea, siamo passati dalle 300 generazioni della scrittura alle 50 del libro per arrivare a un medium nuovo per generazione. E se parliamo di ambienti mediali con un loro singolo set di regole, il processo è ancora più veloce: i medium digitali si trasformano continuamente, come organismi in trance evolutiva accelerata. Lo raccontava Bruce Sterling: non c’è redenzione, l’uomo del XXI secolo è destinato a non smettere mai di imparare.

Brutte pagine web con brutte foto di brutti gatti

Il web del 1996, visto con lo sguardo di oggi, può assomigliare al risultato creativo di un giovane disadattato dopo un’esperienza psichedelica. C’erano molte intuizioni e promesse (ad esempio tutta la teoria sull’intelligenza collettiva di Lèvy), ma la realtà era fatta di modem lentissimi, connessioni difficoltose, pagine web con sfondi a carta da parati, siti web aziendali con le brochure passate in Html via PowerPoint. Il massimo della lussuria erano le gif animate con la casellina della posta che si apriva e usciva la letterina o la scritta mail che ruotava su se stessa.

Lo strumento aveva le stesse potenzialità di oggi, ma meno persone si erano esercitate a innovarlo e noi stessi imparavamo a conoscerlo solo strada facendo. Per dirla con Shirky, per arrivare a oggi, pur avendo tutti i bit necessari già allora, siamo passati attraverso anni di brutte pagine web con brutte foto di brutti gatti su Geocities. Quando abbiamo imparato a usarlo un po’ meglio, per non sentirci inferiori, gli abbiamo dato un nome diverso, un “2.0” che sembra indicare un cambiamento nel web e non nella nostra capacità di usarlo con maggiore consapevolezza.

Ecco, da diversi punti di vista Second Life assomiglia al web del 1996. Ci stiamo dentro, spesso, con goffi bambolotti che chiamiamo avatar (ma i più bravi hanno avatar bellissimi, con movimenti fluidi). Second Life è spesso brutta, irrisolta, piena di problemi tecnici. Le isole non reggono un numero elevato di avatar, l’interazione con gli oggetti è spesso cervellotica, l’uso che ne facciamo (e il senso estetico che produciamo) assomiglia molto spesso ai siti con la carta da parati e le gif animate. Ci sono delle eccellenze, certo, e sono quelle che nei tempi sociali servono da modello per la comunità di pratiche che fa crescere il medium.

Come nel web del 1996, con un ancora limitato set di regole a disposizione, migliaia di persone su Second Life innovano in maniera indipendente, cercando soluzioni efficaci ai loro problemi e perseguendo con intelligenza i loro obiettivi. E altre migliaia di persone, ogni giorno, vedono nuovi esempi che indicano modi diversi per fare o pensare le cose. Certo, la differenza tra il web e Second life è una sola ed è enorme: Second Life è una piattaforma proprietaria. Ma il principio è intuitivo: una interfaccia relazionale in tre dimensioni, in cui si può creare di tutto, è decisamente molto efficace. Quindi è il genere di strada su cui l’innovazione continuerà ad esercitarsi e probabilmente il pubblico finirà per familiarizzare negli anni con questo modello, che continui a essere la piattaforma di Linden o che sia quella di chi saprà proporre una soluzione migliore. La storia dei Mmorpg, in fondo, è fatta di piattaforme proprietarie ed è piena di migrazioni verso la piattaforma migliore, quella realizzata da chi sa interpretare più attentamente il principio. Inoltre, va considerato che le interfacce in tre dimensioni non sono alternative al web. Fanno cose diverse e, semmai, rafforzano sempre di più il ruolo che ha il web di “sistema operativo” degli ambienti digitali, dal mobile a Second Life.

Non tutti i pregiudizi sono quelli che luccicano

I pregiudizi su Second Life sono spesso indicativi. Il fatto stesso che molti usino l’etichetta di virtuale per definire certi ambienti è il segnale di un errore, che ne genera altri a cascata (pensiamo a come percepiamo la responsabilità delle nostre azioni in un ambiente che consideriamo virtuale, quindi – in vulgata – non esistente, contrario a reale). Second Life è semplicemente una interfaccia metaforica, che riproduce un contesto riconoscibile, in cui far interagire delle nostre estensioni digitali. Fa una cosa apparentemente semplicissima, ma assai potente: aggiunge la dimensione dello spazio e dell’interazione nello spazio.

Pietro lo raccontava a proposito di un nostro giochino, in un commento a un suo post: «Magari già solo il fatto che è più semplice… io non saprei già come fare a mettere in teleconferenza 30 persone e gestire senza vederle le “alzate di mano” per farle parlare quando è il momento opportuno senza che si parlino sopra l’uno con l’altro». Ma c’è ancora molto da capire, conoscere, studiare. Per fare un esempio banale: tra due avatar che si conoscono, la prossimità fisica trasmette intimità esattamente come nella vita di carne e ossa. Si può fare una prova empirica: se vi avvicinate molto a un avatar con cui non avete confidenza, ma che ha esperienza di Second life, si allontanerà di qualche passo.

Scrivevo qualche settimana fa sull’Espresso (non online, purtroppo, per questo cito):

L’umanità del XXI secolo sta usando tecnologie che potenziano il pensiero e l’esperienza, che le permettono di superare alcuni limiti biologici tradizionali. Nei prossimi anni impareremo molto su noi stessi: sull’ultimo numero di Science, due ricerche diverse hanno confermato che persino la nostra percezione fisica nello spazio è soggetta a stimoli che possono essere artificiali, ma che non per questo sono meno reali. Sul versante sociale alcuni studiosi parlano di post-umano, altri di identità disseminata. Io preferisco parlare di umanità accresciuta. Arricchita di potenzialità, perché dotata di un’opzione complementare e aggiuntiva, non alternativa alla vita che abbiamo sempre condotto.

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Il concetto di uomo si evolve, è un concetto culturalmente determinato. Probabilmente queste interfacce metaforiche saranno un tassello in più nell’evoluzione del concetto di umanità accresciuta dalle interfacce digitali. In un bel libro, di cui si è decisamente parlato troppo poco in Italia, ci sono bellissime riflessioni: De Kerkhove parla della necessità, per capire chi siamo oggi, di superare il vincolo naturalistico e accettare che viviamo in una condizione anche digitale che ristruttura la nostra vita sensoriale. Rodotà ragiona sulla necessità di adeguare il diritto, partendo da una considerazione dell’habeas corpus che oggi è sia fisico sia elettronico. Antonio Caronia parla di corpo disseminato:

Ecco si ha corpo disseminato ogni volta che un corpo reale può creare effetti di realtà attraverso una tecnologia, anche senza la sua presenza reale […] Ora, è vero che le tecnologie digitali consentono operazioni del genere con un’estensione e una ricchezza impensabili prima del computer; ma se ci pensiamo bene vediamo che già il telefono operava qualcosa del genere, trasferiva (e trasferisce) un effetto di realtà del nostro corpo, e cioè la nostra voce, che attraverso i cavi e l’etere viene portata in posti lontani. […] Se oggi, per la prima volta nella storia delle culture umane, la biologia sembra non essere più un limite oggettivo alle trasformazioni culturali, e quindi l’uomo può realisticamente intraprendere progetti e modelli di superamento del biologico, tanto vale prenderne atto. Anche perchè ciò non vuol dire che è come se il biologico non ci fosse più, ma che si prepara un superamento dei limiti tradizionali che il biologico opponeva al culturale. Che lo si voglia o no, con questa prospettiva dobbiamo fare i conti. Sarebbe stupido dire che non saremo più uomini, ma forse ci stiamo avviando ad essere uomini in modo radicalmente diverso da come lo siamo stati per cinquantamila anni. Possiamo certo dire in quale misura ciò ci sembri desiderabile e in quale no, con quali strumenti e modalità gestire questo processo. Quello che non possiamo proprio fare è chiudere gli occhi e sperare che l’incubo passi (se davvero incubo è).

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La cassettiera di Second Life, dunque

Ecco, in questo processo evolutivo ci stiamo cominciando a confrontare con l’idea di un’interfaccia elettronica che ci permette di interagire in uno spazio metaforico. Per reggere cognitivamente l’impresa abbiamo ancora bisogno di attenerci alla metafora il più possibile: come si osservava nel libro di Mario Gerosa riproduciamo in Second Life il peggio della realtà quotidiana: spazi angusti con brutti tavoli con quattro sedie intorno. Costruiamo un centro congressi istituzionale sentendo il bisogno di ricreare gli uffici degli impiegati e di mettere una cassettiera (che ricorda psicopatologie degli oggetti quotidiani) in una sala riunioni. Ricreiamo intere architetture cittadine che non posseggono minimamente la capacità di emozionare come i modelli cui si ispirano. Abbiamo bisogno di costruirci qualcosa intorno che ci sembri riconoscibile, che attenui la percezione di virtuale che culturalmente attribuiamo a questa nuova estensione di umanità con cui stiamo facendo i conti. Come se il contenuto di questi ambienti non fosse soprattutto la relazione, l’interazione (con e in) contesti diversi.

Il principio di Second Life (che sia la Second Life di Linden Lab o qualsiasi altra cosa che venga in futuro) è fortissimo: una interfaccia in tre dimensioni in cui possiamo creare qualsiasi oggetto e avviare qualsiasi processo sociale, attraverso una rappresentazione spaziale. Data la possibilità di intervenire sul mondo, assomiglia molto al principio di introduzione dell’innovazione da ogni punto, che ha portato il web ad evolversi così rapidamente. Io non credo di sapere cosa succederà in futuro (se Second Life rimarrà una piattaforma proprietaria, se l’evoluzione tecnologica ne farà qualcosa di simile a un protocollo) ma mi sento di suggerire ai curiosi un’osservazione meno scettica e più problematica di quello che sta accadendo nel mondo metaforico. Per ragionarci, come nella tradizione del web, tutti insieme. E per imparare, come abbiamo fatto con il web, a superare la fase delle cassettiere o delle gif animate.

L'autore

  • Giuseppe Granieri
    Autore, docente ed esperto di comunicazione e cultura digitale.
    Il suo bookcafe.net, fondato nel 1996, è stato uno dei primi siti letterari e blog italiani. Ha collaborato con testate come Il Sole 24 Ore, l’Espresso, La Stampa e firmato diversi saggi per l'editore Laterza.

    Foto: Enrico Sola.

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