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Kiva, il marketplace del microcredito

17 Gennaio 2008

Kiva, il marketplace del microcredito

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Un'eccellente applicazione dei business model di Internet alla finanza etica ci permette di fare da Business Angel per microimprese, a partire da 25 dollari

Per il nostro tenore di vita, qualche decina di euro servono al massimo per uscire a cena con gli amici. Per buona parte della popolazione mondiale possono invece costituire un pezzo importante del cammino che fa uscire dalla povertà, un mattone con cui costruire l’edificio di una propria impresa – attraverso il microcredito, una forma di finanziamento etico per l’avvio di piccole o piccolissime imprese nel terzo mondo. Che permette a persone di buona volontà di comprarsi uno zebù nel Madagascar o un cellulare per fare da cabina telefonica mobile nel Bangladesh. O di comprarsi un semplice sacco di sementi per poi rivendere i prodotti al mercato del villaggio. E non è un caso che proprio Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank, uno dei più noti istituti di microcredito, abbia vinto il Nobel per la pace nel 2006.

Il microcredito è ormai una realtà abbastanza consolidata, con molte organizzazioni e personaggi di spicco che la spingono. Il problema è che c’è in genere una lontananza notevole fra il luogo della domanda e quello della potenziale offerta. Che c’è una frammentazione, una difficoltà di farsi vedere, di raggiungere con la propria flebile voce di potenziali imprenditori un pubblico mondiale di donatori potenziali. Se pensiamo però in termini di Internet Marketing e di modelli di business online, questo è un tipico caso applicativo da marketplace. Dove la potenza della Rete (e i suoi costi contenuti) permettono di costruire applicazioni facili per far incontrare domanda e offerta. Qualcuno questo marketplace l’ha proprio costruito, come nel caso di Kiva.org – che si pone come cinghia di trasmissione tra il pubblico pronto a mettere mano al portafoglio e tutta una serie di organizzazioni che si occupano di microcredito, che conoscono il territorio e le persone, ma che non hanno facilmente accesso ai potenziali donatori.

Il capitale richiesto è accumulabile anche in maniera frazionata, quindi si possono sottoscrivere piccole quote del totale, tutto aiuta. Per aiutare una microimpresa si parte da un minimo di 25 dollari, startuppando potenziali imprenditori in paesi in via di sviluppo perchè mettano in piedi una propria iniziativa, sviluppando così attività produttive in grado di far uscire una o più famiglie dalla povertà attraverso un onesto lavoro. Nel più classico dei modelli di reintermediazione, Kiva lavora in partnership con una serie di organizzazioni dedite al microcredito, che propongono i potenziali candidati, dopo un proprio processo di validazione, che dovrebbe garantire della serietà e della volontà della persona – e quindi della probabilità che il business abbia successo e che il debito venga ripagato. Chiaro che qui le logiche delle garanzie bancarie come le intendiamo noi sono sovversivamente ribaltate; se le banche tendono a prestare soldi a chi non ne ha bisogno, qui si affidano piccoli fondi a persone che nessuna banca guarderebbe mai in faccia.

Una volta scelto di sponsorizzare un business o un imprenditore, dal portale è possibile gestire tutto il processo in modo molto rapido e seguire l’andamento del progetto, ricevendo periodici aggiornamenti via email di come sta andando l’imprenditore o l’imprenditrice che stiamo aiutando. Alla fine del prestito (in genere tra 6 e 12 mesi) i soldi vengono restituiti al mittente, pronti – se vogliamo – per essere reimpiegati in un’altra operazione benefica (anche perchè, onestamente, per noi 25 dollari ti ci fai giusto una pizza e una birra).

Kiva.org sembra star godendo di un momento di discreta popolarità e di buona esposizione mediatica. Tanto che non mi stupirebbe se contribuisse a far “diventare di moda” il microcredito sia come strumento di accumulo di benemerenze personali, sia come strumento di marketing aziendale. Non è infatti difficile immaginare una serie di opportunità di marketing peloso a sfondo sociale… di quelli che se mi compri tante scatole di tonno o tanti litri di benzina, io aiuto un agricoltore delle Samoa a piantare un nuovo campo di Taro. O, più auspicabilmente, per attività più nobili di un marketing più etico, di quelli che utenti e aziende mettono entrambi una qualche lira a sostegno di progetti solidali.

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