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Internet mobile verso la quarta generazione

28 Luglio 2009

Internet mobile verso la quarta generazione

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L'industria procede spedita e mezzo mondo già si prepara al nuovo salto tecnologico. In Italia, tanto per cambiare, si aspetta che le istituzioni si mettano d'accordo sulle frequenze

Fiato sospeso e tutti pronti per il più grande salto mai fatto dalla telefonia mobile dai tempi dell’arrivo dell’Umts: si va a passo spedito verso la quarta generazione. Nel 2010 è previsto l’ultimo passo di avvicinamento, con l’HSPA+, già inaugurata da Tim a Milano in anteprima mondiale (28 Megabit al secondo). Vodafone e 3 Italia seguiranno l’anno prossimo. È un salto che è anche una scommessa: per dare più banda (reale) agli utenti, non basta fare un upgrade dell’antenna verso nuovi standard. Altri tasselli devono andare al proprio posto. In parte è quanto sta avvenendo adesso, ma per rispettare la roadmap degli annunci il tempo stringe e alla fine, se anche l’industria riuscirà a centrare gli obiettivi, ci arriverà con il fiatone. I tasselli necessari non dipendono, in buona parte, dalla volontà degli operatori: sono politici e si muovono su uno scacchiere nazionale ed europeo. Principalmente, si tratta del refarming e del dividendo digitale.

Fame di spettro

Da una parte, quindi, l’industria va avanti. Già nel 2010 dovrebbero partire i primi network Lte (Long term evolution) in Svezia, dove è stata appena annunciata la prima torre cellulare adatta e negli Usa con Verizon. Nota bene: Lte è una terminologia ideata da Ericsson, che è riuscita a imporla come sinonimo di quarta generazione di reti cellulari ed evoluzione dell’HSPA. La quarta generazione è però un’arena di standard dove c’è almeno un concorrente (teorico) all’Lte: il WiMax mobile, già disponibile; ha qualche mese di vantaggio sull’Lte, ma sul piano pratico è penalizzato perché non ha dalla sua né gli operatori mobili né le frequenze giuste.

Anche l’Lte, però, nonostante i suoi forti supporter, ha bisogno di una spinta per realizzarsi appieno. Oltre alle antenne e agli apparati Lte, serve che gli operatori abbiano abbastanza spettro a disposizione. La banda offerta è infatti direttamente proporzionale alla quantità di spettro presente nella cella. I 28 Megabit di Tim sono appunto la banda nella cella, da suddividere tra tutti gli utenti connessi al momento; non è la banda per utente: una differenza sostanziale, che il marketing degli operatori spesso non ritiene necessario puntualizzare. Se le risorse spettrali sono insufficienti, è possibile moltiplicare il numero di celle, ma è una soluzione costosa, che gli operatori adotteranno solo se necessario e, tendenzialmente, solo in zone a grande affluenza. È noto che gli operatori stanno facendo numerosi accordi di site sharing appunto per ridurre (di molto) i costi di network.  Ecco perché serve che gli operatori abbiano più spettro occupabile per cella: per sostenere il futuro della banda larga mobile. Una conclusione a cui è giunto anche il rapporto Caio ed è condivisa da pressoché tutti gli analisti del settore.

La mappa delle frequenze

Ma da dove arriverà nuovo ossigeno per la banda larga mobile? Il primo “tesoretto” a portata di mano è il refarming, che gli analisti di Pyramid Research definiscono il più grande evento normativo nella telefonia mobile degli ultimi 20 anni. Questa settimana il consiglio della Ue ha dato il via libera ufficiale al refarming, da cui si prevedono risparmi di 1,6 miliardi per la telefonia mobile. È, in sostanza, la possibilità di usare per la rete banda larga le frequenze che finora sono state destinate al Gsm: i 900 e i 1800 MHz. Frequenze più pregiate di quelle ora in uso (2.100 MHz). Permettono al segnale di coprire più territorio a parità di antenne e di penetrare meglio all’interno dei luoghi chiusi. «Gli operatori risparmieranno il 50-70% sui costi di rete e potranno così coprire con la banda larga mobile anche le zone rurali», dice Catherine Viola, analista di Analysys Mason. Gli operatori dovranno pagare un piccolo costo (da definire) per la ridesignazione d’uso delle frequenze. Il refarming è per loro quindi un bonus che viene a costi ridottissimi. In Italia ci sono sette blocchi di frequenze a 900 MHz, di cui sei già assegnati a Tim, Wind e Vodafone; il terzo, per equilibrare la partita, dovrebbe andare a 3 Italia.

In Italia, altro ossigeno verrà inoltre dalle frequenze ex-Ipse, a 2,1 GHz. Sulla banda degli 1800 MHz si dovrebbero liberare ulteriori frequenze, ora utilizzate dalla Difesa. Basterà? Forse non nel lungo periodo. Forse non per dare a tutti e senza colli di bottiglia la banda larga promessa dalla quarta generazione. Anche gli analisi di Pyramid, che applaudono al refarming, ricordano che alla banda larga mobili occorrono anche le frequenze del dividendo digitale (liberate con lo switch off della tv analogica). L’Italia ad oggi è il solo Paese in Europa dove ancora le istituzioni non si sono pronunciate a favore dell’utilizzo di queste frequenze per la banda larga. Negli Usa, ricordiamo, sono già state assegnate con un’asta agli operatori. Ad oggi, le istituzioni parlano solo di tv quando trattano di dividendo digitale e bisognerà veder, fino all’ultimo, se ci sarà una svolta, magari su pressione della Commissione Europea (che pure propende perché il dividendo digitale vada anche alla banda larga).

Di certo, serve il dividendo per creare una concorrenza tra tecnologie di quarta generazione. Il refarming (e, da noi, le frequenze ex-Ipse) andranno infatti in pasto solo all’Lte. Il WiMax mobile può sperare solo nell’ossigeno del dividendo digitale. E, nelle meno pregiate frequenze a 2,4-2,6 GHz che in Nord Europa sono già state assegnate e che da noi andranno all’asta, forse, nel 2010. Già: mica è solo una questione di antenne, fibra e router. C’è pure tanta politica nel futuro della banda larga mobile.

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